The Electric State è l’ennesimo film ad altissimo budget (siamo oltre i 300 milioni di dollari investiti) pubblicizzato da Netflix come (che sorpresa!) l’ennesimo evento epocale destinato a segnare la cultura pop. Il risultato? Proprio come accaduto ai titoli che l’hanno preceduto sulla piattaforma e non solo, la cultura pop se ne dimenticherà in un battito di ciglia: per l’industria dell’intrattenimento, però, è arrivato il momento di concedersi una seria riflessione sui danni che operazioni del genere stanno causando all’idea stessa di blockbuster.
Sulla carta, The Electric State avrebbe avuto a disposizione diversi elementi fondamentali nella creazione di un blockbuster di successo: un budget immenso, un cast di volti amatissimi (da Millie Bobby Brown a Chris Pratt, passando per Giancarlo Esposito, Stanley Tucci, Ke Huy Quan e per le voci di Anthony Mackie e Woody Harrelson), due registi di grande esperienza nel genere, il jolly dell’estetica vintage, una graphic novel interessantissima da adattare (quella, omonima al film, dell’artista svedese Simon Stalenhag) e che offre una trama dagli spunti validissimi, basata su questi anni ’90 distopici in cui i robot, sfruttati per decenni dagli umani e pacificamente insorti dopo aver preso coscienza dei propri diritti e dei propri desideri, sono stati esiliati in una sorta di riserva dalla quale non hanno modo di evadere. Tutti ingredienti che, però, vengono miseramente depauperati da una gestione che ha evidentemente puntato non a raccontare qualcosa che potesse colpire gli spettatori, ma a inserire le variabili laddove la formula generata dall’algoritmo lo richiedeva, secondo una legge del 2+2=4 che non può e non deve essere applicata all’arte.
Se Steven Spielberg, in anni di progetti di matrice smaccatamente pop e a budget altissimo, ci ha insegnato quanto sia il cuore a distinguere un E.T. o un Indiana Jones da decine e decine di progetti anonimi mai capaci di lasciare un segno, Netflix continua infatti a fare l’esatto opposto e appiattisce, svilisce, banalizza. Tutto, in The Electric State, è plasticoso: dagli anni ’90 ricreati unicamente a suon di stereotipi e strizzatine d’occhio alla regia inesistente dei Russo (il duo di registi rappresenta ormai un vero e proprio cataclisma per il cinema: si vedano i loro ultimi tonfi, da Cherry a The Gray Man), passando per una trama che viene castrata di ogni suo spunto di riflessione interessante o di ogni momento realmente coinvolgente, limitandosi invece a procedere da un punto A a un punto B senza mai preoccuparsi di dare allo spettatore un vero e proprio motivo per interessarsi alle storie dei personaggi. Protagonisti e villain, d’altronde, sono un’altra nota dolente: Chris Pratt non fa altro che riproporre Star-Lord, Millie Bobby Brown continua a sprecare il suo talento (ma cos’è rimasto, davvero, della brillante star delle prime stagioni di Stranger Things?) con personaggi scritti male e francamente insopportabili, forti di una superiorità morale forzata e davvero stucchevole, come già hanno dimostrato film come Damsel ed Enola Holmes; non pervenuti Stanley Tucci e Ke Huy Quan, mentre comincia ormai a diventare fastidioso un Giancarlo Esposito imprigionato dai tempi di Breaking Bad nel ruolo del villain freddo, calcolatore e imperturbabile.
Neanche la colonna sonora, pur forte di tanti ottimi brani, riesce a risollevare l’insieme, e ci permette anzi di aprire una riflessione sui danni involontariamente fatti dai Guardiani della Galassia di James Gunn, alla luce del cui successo in molti hanno evidentemente fatto l’errore di pensare che una soundtrack di pezzi iconici basti a garantire la riuscita del film, dimenticando completamente la funzione diegetica dei brani utilizzati dall’attuale presidente dei DC Studios nei suoi tre, indimenticabili film targati Marvel. In The Electric State ogni pezzo sembra caduto lì per caso, con l’unico scopo di farci battere il piede a tempo e provare a irretirci con l’illusione di star assistendo a qualcosa che sappia mixare sapientemente azione, epicità e riferimenti pop, finendo unicamente con l’aumentare la sensazione di presa per i fondelli.
Le terribili recensioni ottenute da The Electric State (al momento il peggior risultato ottenuto dai Russo sul noto aggregatore Rotten Tomatoes) e il rapidissimo calo d’interesse nei suoi confronti devono dunque spingerci a una riflessione sugli errori di Netflix e sui danni che il sistema della piattaforma sta causando al cinema ad alto budget. L’impressione è che l’unico intento della produzione sia quello di venderci ogni nuovo progetto simile come un grande evento, puntando su un battage pubblicitario aggressivissimo e su di un hype anche quello plasticoso proprio come il film, perché creato ad arte dalle campagne social più che realmente percepito dagli spettatori (un problema, questo, che coinvolge non a caso anche grandi franchise come il Marvel Cinematic Universe post-Avengers: Endgame, o dai più recenti lavori di Zack Snyder per Netflix stessa come il pessimo Rebel Moon). Un hype finto e usa e getta come usa e getta sono film del genere, capaci di bruciare centinaia di milioni di dollari per un pugno di visualizzazioni: a questo punto, però, parlare di cinema ci sembra francamente fuori luogo, perché operazioni del genere meriterebbero forse di esser giudicate alla stregua di contenuti da social, alla pari dell’ennesimo video dell’ennesimo content creator dedito ad inseguire le mode del momento più che a tentare di intercettare o anticipare una voglia reale. L’unica speranza è che i conti, economicamente, comincino a non tornare: solo allora, forse, chi di dovere comincerà a porsi le domande giuste.