Giunta ormai alla conclusione della sua seconda stagione, Scissione si conferma come potenzialmente la miglior serie TV dei nostri tempi, o comunque quella che più di ogni altra è capace di intercettare le grandi questioni sociali, politiche e morali degli anni 20 del 2000. In Italia, però, se ne parla troppo poco: colpa, probabilmente, di quella Apple TV+ sul cui catalogo è disponibile lo show e che, a differenza delle varie Netflix e Disney+, nel nostro Paese non ha mai davvero messo radici.
Facciamo un po’ di ordine: Scissione è una serie diretta da un sorprendente Ben Stiller la cui premessa dovrebbe bastare a far scattare in chiunque un certo sbrilluccichio di curiosità. I suoi protagonisti sono infatti degli impiegati di una misteriosa quanto nota multinazionale, la Lumon, per la quale hanno accettato di partecipare a un progetto rivoluzionario e in fase sperimentale, vale a dire quello che dà il titolo alla serie: alla firma dei loro contratti, i nostri hanno accettato di farsi partizionare la memoria, ragion per cui ogni giorno, al loro arrivo sul posto di lavoro, non ricordano più nulla della loro vita nel mondo esterno. Al tempo stesso, al termine dell’orario lavorativo, Mark S. e soci tornano a vivere la propria vita, dimentichi dei compiti svolti quel giorno: tutti loro, ovviamente, hanno degli ottimi motivi per aver accettato di sacrificare letteralmente una parte della propria esistenza al loro datore di lavoro.
Un punto di partenza dal quale si snodano infiniti percorsi, tutti interessantissimi sul piano morale. Se parlavamo, in apertura, di Scissione come di una serie solidamente inquadrata nei tempi in cui viviamo è prima di tutto per la riflessione che lo show Apple TV+ ci impone sul tempo come valore essenziale della nostra esistenza, merce di scambio che sempre più spesso ci viene chiesto di sacrificare sull’altare della performatività, dell’ambizione obbligata, di sogni che non sono i nostri. I dipendenti del piano Scissione della Lumon, che non hanno memoria finanche della semplice luce del sole, rappresentano il sogno proibito di ogni azienda della società occidentale del 21esimo secolo, completamente dediti al lavoro, gratificabili con un waffle quando raggiungono un obbiettivo, privi di tutte quelle distrazioni che inevitabilmente provengono dalla sfera privata di ognuno di noi, dai nostri rapporti personali, dai nostri desideri e dai nostri malesseri, insomma dal nostro essere immersi in una vita che non è, e non può essere, soltanto performance lavorativa.
È la seconda questione di tipo morale, però, a mettere i bastoni tra le ruote alla Lumon: Scissione ci chiede infatti di interrogarci sulla natura stessa della vita. Nel creare una memoria “vergine” all’interno dei corpi e dei cervelli di Mark, Helly, Dylan e Irving, il risultato è infatti quello di creare da zero un nuovo individuo, che pur se consapevole dell’esistenza di un se stesso “esterno” e limitato a spendere la propria esistenza circondato delle pareti immacolate del piano Scissione della Lumon non potrà esimersi dallo sviluppare una propria personalità, dei propri sentimenti, una curiosità che lo porti a interrogarsi su ciò che esiste al di fuori della Lumon e su quanto valga effettivamente più di ciò che lui costruisce per sé, giorno dopo giorno, durante quell’orario lavorativo che corrisponde effettivamente in tutto e per tutto alla sua vita (il licenziamento, nel caso degli Interni, come vengono chiamati i dipendenti Lumon, equivale infatti letteralmente alla morte). Un problema che Scissione eredita da infiniti capolavori del cinema e della letteratura (vi dice niente Solaris?) e che nel corso degli episodi della serie viene introdotto, sviscerato, ribaltato e portato alle estreme conseguenze durante lo spettacolare e doloroso finale della seconda stagione.
A tutto ciò fa da filo conduttore una narrazione esemplare, con tempi morti vicini allo zero e capace di farci provare, al termine di ogni episodio, le sensazioni che provavamo con serie come Lost: la necessità di saperne di più, la voglia di elaborare teorie e confrontarsi con gli altri spettatori, il desiderio furioso di addentrarsi sempre più a fondo in un mistero la cui soluzione sembra allontanarsi, come l’orizzonte di Eduardo Galeano, a ogni passo mosso nella sua direzione. Vanno sottolineate le splendide performance di tutti i protagonisti, da Adam Scott a John Turturro, passando per le rivelazioni Britt Lower e Tramell Tillman e per un’ottima Patricia Arquette, così come una regia mai banale che, non ce ne voglia Ben Stiller, tocca il suo apice nell’episodio Il Bardo Chikhai, quando ad occuparsene è la direttrice della fotografia Jessica Lee Gagné. Per questi e per tanti altri motivi, dunque, Scissione è una serie da vedere senza se e senza ma, e che non è ancora assurta al rango di fenomeno di costume solo a causa della diffusione relativamente scarsa della piattaforma che la distribuisce: state per certi, però, che per quello è solo questione di tempo.