Negli ultimi decenni, la politica ha subito una trasformazione profonda, non solo negli orientamenti e nelle dinamiche di potere, ma soprattutto nel linguaggio utilizzato dai suoi rappresentanti. La degenerazione linguistica della classe politica è diventata un fenomeno particolarmente evidente e allarmante, dove trivialità, offese esplicite e discorsi al limite della diffamazione sono entrati stabilmente nel dibattito pubblico. Il linguaggio, che dovrebbe essere lo strumento primario per comunicare idee e valori alla cittadinanza, si è trasformato in un’arma di divisione e di semplificazione estrema.
Le parole, una volta scelte con cura per costruire una narrativa politica comprensibile e partecipata, oggi sembrano servire solo a polarizzare, scandalizzare e, soprattutto, a ridurre a slogan tematiche complesse. Esistono esempi concreti di questa tendenza: politici che si riferiscono agli avversari come “buffoni”, “traditori” e “ladri”, piuttosto che come rivali ideologici con cui confrontarsi costruttivamente. Questi termini non solo mirano a distruggere la reputazione degli avversari, ma alimentano una cultura del sospetto e della delegittimazione.
Tale degenerazione linguistica non è un problema solo italiano – basti pensare alle parole ingiuriose del massimo rappresentante della politica americana e del suo seguito per farsene un’idea. Donald Trump, ad esempio, ha costruito una parte consistente della sua retorica politica su insulti personali e soprannomi sprezzanti: da “Crooked Hillary” per Hillary Clinton a “Sleepy Joe” per Joe Biden, fino al derisorio “Pocahontas” rivolto a Elizabeth Warren. Con un lessico che oscilla tra l’aggressività da reality show e la banalizzazione delle istituzioni, Trump ha reso normale un tono politico che prima era relegato ai margini del dibattito.
Retorica del dissenso o del consenso?
La crescente dipendenza dalla retorica populista ha avuto effetti negativi anche su come i politici si rivolgono a categorie specifiche della popolazione, dipinte sempre più spesso con toni denigratori e generalizzazioni grossolane. L’uso di termini come “scrocconi”, “parassiti” o “zecche” per indicare disoccupati, migranti o persino oppositori politici è divenuto tristemente comune. Questo linguaggio serve a costruire un nemico interno, un “altro” contro cui incanalare le frustrazioni di una parte dell’elettorato.
Donald Trump ha spesso fatto ricorso a espressioni simili per indicare migranti e rifugiati, descritti come “criminals”, “rapists” o “animals”, contribuendo a una visione disumanizzante dell’immigrazione. Ha più volte evocato la costruzione di un “great, beautiful wall” per “tenere fuori la feccia”, affermando che “they’re not sending their best”. Con queste dichiarazioni, l’ex presidente americano ha legittimato l’idea che esistano gruppi di cittadini meno degni di rispetto o protezione, un atteggiamento che trova eco, purtroppo, anche nel dibattito politico italiano.
La scelta di queste parole non è casuale: sono espressioni che evocano disgusto e distanza emotiva, suggerendo che i destinatari di questi insulti non siano degni di considerazione. Così facendo, alcuni leader politici abbandonano il linguaggio istituzionale per abbracciare una retorica di disprezzo che sembra voler rispecchiare i sentimenti di una popolazione sempre più arrabbiata e disillusa. Se da un lato questa strategia possa sembrare efficace nel breve termine, dall’altro genera conseguenze devastanti per la coesione sociale e la tenuta democratica.
Quando categorie intere di cittadini vengono dipinte come un problema, non si fa che aumentare la percezione di insicurezza e la polarizzazione, rendendo più difficile il dialogo e l’inclusione e, soprattutto, disaffezionandoli sempre più dalla partecipazione. I risultati elettorali sono da attestarsi sull’aumento increscioso dell’astensionismo. E così non va bene.
La violenza verbale è accettabile o carica l’emulazione sociale?
Un altro aspetto rilevante di questa degenerazione linguistica è l’uso crescente di metafore violente e di toni marcatamente aggressivi. Espressioni come “distruggere”, “annientare”, “eliminare” o “cancellare” sono diventate ricorrenti nelle dichiarazioni pubbliche, come se la politica fosse una guerra e non una forma di confronto pacifico.
Trump ha elevato questa retorica a metodo: ha promesso di “drain the swamp”, ovvero “prosciugare la palude” di Washington, con un linguaggio che suggerisce la rimozione forzata di una classe dirigente corrotta. Ha definito giornalisti e media critici come “enemy of the people” (nemici del popolo), terminologia che rievoca i peggiori autoritarismi del Novecento. La politica, in questa logica, non è più confronto di idee ma battaglia per la sopravvivenza ideologica, in cui il compromesso è visto come una resa e il dialogo come debolezza.
Questo approccio, oltre a promuovere una visione della politica come scontro feroce, incide profondamente sulla percezione che i cittadini hanno delle istituzioni e del loro funzionamento. Il Parlamento, un tempo luogo deputato alla discussione e alla mediazione, sembra essersi trasformato in un ring, dove le parole sono usate come pugni. Emblematico è l’atteggiamento di alcuni esponenti politici, che scelgono di scatenare conflitti e insulti non solo in campagna elettorale, ma anche durante le sedute parlamentari.
La normalizzazione dell’insulto
Infine, uno degli effetti più insidiosi della degenerazione linguistica è il pericolo della normalizzazione: quando l’insulto diventa la norma, anche i cittadini si sentono legittimati a utilizzare toni e parole simili, sia nel dibattito pubblico che nella vita privata. La comunicazione violenta dei politici italiani sta infatti generando un clima in cui è considerato normale insultare, attaccare e ridicolizzare chi la pensa diversamente.
Trump, con il suo uso sfrenato di Twitter (oggi X), ha dimostrato quanto sia potente il mezzo digitale nel diffondere messaggi tossici: in 280 caratteri è possibile colpire duramente istituzioni, persone, minoranze. E innumerevoli suoi sostenitori hanno ripreso toni e contenuti, arrivando in alcuni casi a intimidazioni fisiche o verbali contro giornalisti, avversari politici e perfino alti funzionari pubblici.
Questo ha conseguenze negative soprattutto sulle nuove generazioni, che crescono con l’idea che la politica sia una guerra verbale priva di regole, dove il rispetto e la diplomazia sono visti come segni di debolezza anziché di maturità. In un Paese già segnato da una forte frammentazione sociale, questa tendenza rischia di minare ulteriormente la coesione, alimentando il sospetto e la disaffezione nei confronti della politica e delle istituzioni democratiche.
Più che mai, serve una riflessione seria e collettiva sulla responsabilità del linguaggio e sull’importanza di ricostruire un dibattito politico basato sul rispetto, sull’argomentazione e sulla capacità di ascoltare, perché solo così si può sperare di restituire dignità al discorso pubblico e alla politica stessa. Cicerone docet