Nel sentire comune, un uomo che uccide con premeditazione una povera ragazza con due/tre coltellate è senz’altro disumano e per questo non esiteremmo ad affermare che abbia agito con “crudeltà”. Figuriamoci quando le coltellate siano più numerose ed inflitte in un arco di tempo complessivo di venti minuti. Così, hanno suscitato diffusa indignazione le motivazioni della sentenza relativa alla condanna di Filippo Turetta ove i giudici hanno escluso l’aggravante dell’aver agito con crudeltà.
Ma nel diritto penale l’aggravante della crudeltà ha un’accezione tecnica diversa da ciò che si intende con tale parola nella lingua italiana e nel comune sentire. La sentenza della Corte di Assise, che ha condannato Turetta al massimo della pena, pur riconoscendo l’aggravante della premeditazione ed escludendo tutte le attenuanti, non ha riconosciuto l’ulteriore aggravante della crudeltà, nonostante la furia omicida si sia espressa con ben 75 coltellate.
La Cassazione, sin dal 2015 in occasione della sentenza nei confronti di Salvatore Parolisi per l’uccisione di Melania Rea, ha stabilito che per l’aggravante della crudeltà assume un ruolo rilevante l’intenzione. La giurisprudenza ha stabilito che non basta un’azione violenta, come colpire una persona ripetutamente, per configurare un comportamento particolarmente efferato. È necessario andare oltre la mera descrizione dei fatti e analizzare il contesto emotivo e psicologico dell’autore. L’intenzione diventa quindi il fulcro della valutazione: se l’omicida ha agito con l’intento di infliggere sofferenze superflue, il suo comportamento assume una connotazione ben più grave.
La differenza tra un omicidio “normale” e uno particolarmente efferato risiede, dunque, nella volontà di infliggere dolore, nella scelta consapevole di prolungare la sofferenza della vittima. La mancanza di empatia e l’atteggiamento sadico diventano indicatori chiave per la qualificazione del reato. Questo principio non si limita a essere una mera astrazione legale, ma si traduce in una necessità di giustizia che riconosce la dignità della vittima e la gravità dell’atto compiuto.
Nel caso di Turetta la Corte ha invece escluso la circostanza aggravante dell’aver agito con crudeltà, «non essendovi elementi da cui poter desumere con certezza, e al dì là di ogni ragionevole dubbio, che egli volesse infliggere alla vittima sofferenze gratuite e aggiuntive».
La Corte ha affermato che «non sarebbe ammissibile la fissazione di una “soglia di coltellate” al di sopra della quale ritenere integrata l’aggravante in parola, essendo necessario l’esame delle modalità complessive dell’azione e del correlato elemento psicologico del reato posto in essere».
Anche alla luce di tali principi, la Corte di Assise ha proseguito osservando che «l’aver inferto settantacinque coltellate non si ritiene sia stato, per Turetta, un modo per crudelmente infierire o per fare scempio della vittima: l’imputato ha aggredito Giulia Cecchettin attingendola con una serie di colpi ravvicinati, portati in rapida sequenza e con estrema rapidità, quasi alla cieca».
I giudici hanno ritenuto che tale dinamica, «come detto certamente efferata, sia stata dettata, in quelle particolari modalità, non da una deliberata scelta dell’imputato ma essa sembra invece conseguenza della inesperienza e della inabilità dello stesso: Turetta non aveva la competenza e l’esperienza per infliggere sulla vittima colpi più efficaci, idonei a provocare la morte della ragazza in modo più rapido e “pulito”, così ha continuato a colpire, con una furiosa e non mirata ripetizione dei colpi, fino a quando si è reso conto che Giulia “non c’era più”».
Dunque secondo i giudici Turetta avrebbe inflitto le 75 coltellate non con l’intento di provocare dolore e sofferenza alla vittima ma perché era inesperto ed incapace di provocare la morte con pochi colpi ed immediatamente letali.