Ogni fotografia in contesti di guerra, morte, dolore, genocidi è un prezioso documento di denuncia della barbarie, di ciò che è capace di fare l’uomo contro l’uomo.
Le immagini fotografiche di sofferenza e di morte, però, non ci dicono e mostrano solo ciò che è barbarie e brutalità: ci invitano perentoriamente e implicitamente a porre termine alla sofferenza, ci dicono che «questo deve finire!».
Ogni testimonianza fotografica di barbarie vuole ricordarci il più genuino e più vero significato della parola civiltà e ci fa vedere come l’uomo, abbrutito dalla sua stessa violenza, si scagli di fatto contro la civiltà.
Il fotogiornalismo è un potentissimo mezzo di informazione: ci offre una visione consapevole dei diritti umani e di ciò che li offende, ci ricorda l’inalienabile diritto alla vita, alla libertà, per il raggiungimento di un’esistenza dignitosa e rispettosa degli altri.
Purtroppo, sappiamo bene che i diritti della persona umana, proprio nel momento nel quale vengono ricordati e proposti, mentre accadono nella realtà concreta dei fatti, non vengono minimamente rispettati.
Le libertà degli esseri umani, spesso, sono messe in pericolo da leggi che remano contro la dignità delle persone, da leggi che invocano un controllo poliziesco assurdo e asfissiante, dove il significato vero di pubblica sicurezza – ma anche di sicurezza personale – finisce per essere malamente interpretato e utilizzato dal potere politico come un vero e proprio strumento antidemocratico di repressione del diritto di parola e di dissenso.
Significativamente e con lungimiranza, la storica Lynn Hunt ha evidenziato che «siamo assolutamente certi che è in gioco un diritto umano quando veniamo sconvolti dalla sua violazione».
Nel 1948 le Nazioni Unite approvarono la “Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo”.
Essa fu emanata «all’indomani del genocidio degli ebrei, ovvero alle macerie di un mondo attonito di essersi abbassato a un’orgia di violenza e depravazione», come ci ricorda Susie Linfield.
Oggi, in maniera sciagurata, proprio coloro che furono vittime di un immane genocidio, a propria volta sono diventati carnefici: stanno imitando i nazisti e riproponendo un nuovo, vergognoso, indicibile, scellerato e programmato genocidio alle spalle di un popolo, quello della Palestina.
La storia sembra non aver insegnato assolutamente nulla.
Punto e a capo, a ruoli ribaltati.
Con orrore constatiamo che la barbarie è sempre attuale e che non è stata mai debellata, nonostante i proclami solenni e gli impegni ufficiali internazionali in difesa della dignità della vita umana, che pur sono stati sottoscritti da molti stati.
Oggi più che mai è necessaria la documentazione giornalistica e fotografica di ciò che sta succedendo.
È indispensabile farlo: è un imperativo morale ed etico documentare per conoscere e denunciare, per non chiudere gli occhi di fronte alla realtà dei fatti.
Va assolutamente ricordato che l’arte, la fotografia, il fotogiornalismo in particolare, non sono strumenti neutri, asettici, di una cultura lontana dagli orrori delle guerre, ma diventano strumenti politici di conoscenza e di denuncia, indispensabili per prendere coscienza di ciò che sta realmente succedendo ora, sotto i nostri occhi.
Il fotogiornalismo serve anche per smascherare e mettere in rilievo comportamenti che degradano le persone, la loro dignità, e offendono e distruggono la stessa vita umana, come i bambini fatti a pezzi, dilaniati da bombe assassine.
Purtroppo, gli orrori commessi in passato oggi sono scelleratamente riproposti e, a pagarne le conseguenze e i devastanti effetti, sono ancora una volta i più deboli: le popolazioni civili, le donne e soprattutto i bambini.
Vergognosamente, una buona parte di quegli stati che avevano sottoscritto la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo oggi fanno finta di non vedere e, anzi, con grande scelleratezza e stoltezza massima, sostengono proprio chi sta commettendo crimini indicibili di un nuovo genocidio che è sotto gli occhi di tutti.
Volerlo negare è semplicemente puerile e stupido.
Puntualmente, vengono presi di mira e uccisi brutalmente giornalisti e fotoreporter presenti sui luoghi dove questi atti inumani vengono giornalmente commessi: per mettere a tacere e per tentare di eliminare fonti e documenti inoppugnabili, capaci di mostrare e inchiodare senza alcun dubbio le atrocità di chi si macchia di questi rinnovati e orrendi crimini contro l’Umanità.
Il fotogiornalismo è denuncia, lo è sempre stato.
Ma oggi acquista un senso di grande attualità alla luce di quanto sta succedendo a Gaza soprattutto, e in altri scenari di guerra che stanno mettendo gravemente a repentaglio la pace nel mondo e la concordia tra i popoli.
I fotogiornalisti documentano in modo aspro, forte, senza orpelli ciò che i loro occhi vedono: i bambini, le donne, le persone smarrite che “abitano” e sono rinchiuse in campi di internamento, campi di sfollati, campi di profughi, campi di concentramento a cielo aperto, spesso continuamente e inumanamente bombardati.
Persone umiliate, senza cibo né acqua, per non parlare della distruzione di ospedali e dei vili attacchi contro la Croce Rossa internazionale e contro i medici che fanno l’impossibile per aiutare le popolazioni allo stremo.
Dov’è il senso di umanità?
In queste condizioni, che significa essere un uomo, una donna, un bambino, una bambina?
Ecco, allora, che questi coraggiosi reporter e giornalisti svolgono un ruolo importante, e si spera che, prima o poi, i responsabili di queste immani tragedie e atrocità – adeguatamente documentate con immagini, con fotografie e anche con filmati chiari ed eloquenti – possano essere giustamente puniti per i crimini commessi.
Si deve chiedere e ottenere giustizia e pene esemplari per chiunque si sia macchiato di reati contro l’Umanità.
Non possiamo né dobbiamo tacere e restare volutamente ciechi di fronte a tanta palese barbarie!
Da sempre la fotografia è arte, ma anche terreno fertile di denuncia sociale.
Da Jacob Riis a Lewis Hine, da Peter Magubane nel Sudafrica dell’Apartheid a Josef Koudelka durante la Primavera di Praga, da Bob Adelman che ha documentato le lotte per i diritti civili negli Stati Uniti d’America a Luciano D’Alessandro, che ha fotografato a metà degli anni Sessanta lo stato di degrado umano delle persone recluse nei manicomi italiani, fino ad Antonio Tateo che ha documentato le ultime lotte contadine a Persano, nel Salernitano, nel 1979: tanti altri coraggiosi protagonisti della fotografia documentaria hanno lasciato una traccia indelebile.
La fotografia della sofferenza ci mette di fronte all’individualità della sofferenza, alla sua dolorosa singolarità, alla sua verità straziante che urla la propria solitudine e ci offre l’angosciante verità dello smarrimento e della fragilità dell’essere umano.
Il fotografo che documenta il dolore, il male, è anche lui solo di fronte allo sguardo di chi soffre, ma è capace di ritrarre il momento in cui noi poi leggiamo nell’immagine la restituzione del senso di quel dolore e il riconoscimento che anche noi siamo creature fragili.
Alcuni “critici” hanno attaccato i fotografi sociali e di guerra, i documentalisti visivi del dolore e della morte.
Li hanno attaccati perché le loro fotografie sono state considerate “oscene”, perfino “pornografiche”, perché cozzano contro una visione estetica neutra, ancora legata alla retorica del bello ideale.
Ma è fin troppo chiaro e ovvio che sono calunnie infondate, perché, a ben vedere, tutte «queste accuse piene di rabbia verso la fotografia documentaria non fanno altro che rivelare qualcosa di semplice e al tempo stesso pericoloso: un desiderio di non guardare il mondo» (S. Linfield).
In verità, è il non vedere, il non guardare il mondo, che alla fine diventa complice di chi commette atti violenti contro le persone.
Il non voler vedere significa essere pericolosamente complici di chi il male lo pratica e lo attua quotidianamente.
Ed è esattamente per questa ragione che i giornalisti e i fotoreporter vengono uccisi da chi pratica il male e fa di tutto per nascondere la verità agli occhi del mondo.
L’occhio del fotografo giornalista che documenta è pericoloso perché svela, mette a nudo la verità e la porge all’attenzione del pubblico.
Noi oggi abbiamo bisogno di più fotografi e di più fotografia documentaria: la verità non va taciuta. Mai!
Il coraggio civile è nel mostrare la verità. Sempre.