Nonostante le ormai famose tredici nomination del tanto criticato Emilia Perez, alla fine è stato Anora a fare la voce grossa agli Oscar 2025: il film di Sean Baker ha sbancato, portando a casa ben cinque premi su sei candidature, tra cui quello per il Miglior film. Non manca, comunque, chi già prova a sminuirlo, ma è meglio mettere le cose in chiaro: i paragoni con Pretty Woman sono roba per chi farebbe meglio a lasciar perdere il cinema.
Partiamo dal principio, cioè dalla storia: Anora è anche il nome della protagonista del film, una ragazza ventisettenne che lavora come spogliarellista sette notti su sette in un locale di Brooklyn. Qui la nostra viene notata da Vanya, rampollo di un magnate russo che per Anora sviluppa una vera e propria passione, al punto da proporle (questa sì, un’evidente strizzata d’occhio al cult con Julia Roberts) di stipulare una sorta di contratto per trascorrere una settimana come sua compagna.
Le cose si fanno più serie, però, quando Vanya, desideroso di indispettire i suoi genitori, chiede ad Anora di sposarlo: la ragazza accetta entusiasta immaginando già una vita lussuosa al suo fianco, ma gli oligarchi russi non sono tipi da voler spartire le proprie ricchezze con una prostituta e, quando questi arrivano a Brooklyn per indagare sui piani del figlio (che nel frattempo si dà alla macchia), le cose finiscono per mettersi davvero male.
Tanto dovrebbe bastare a comprendere la pretestuosità di certi paragoni: che Anora non inventi nulla è un dato di fatto, come lo è, però, che ciò che il film di Baker non inventa riesce comunque a declinarlo nella miglior maniera possibile per descrivere i tempi che viviamo da più di una prospettiva. Cenerentola, in questo caso, non è il lieto fine di cui gode la Vivian Ward di Julia Roberts, ma un progetto concepito con l’aborto come unico futuro possibile e come unico vero obbiettivo l’esibizione del lusso sfrenato per la protagonista e la soddisfazione di un capriccio (la soddisfazione sessuale prima, il provocare i genitori poi) da parte del giovane miliardario russo.
L’ascensore sociale riservato alla giovane donna ancora abbastanza sognatrice da credere all’amore da favola semplicemente non esiste, è un’illusione creata dallo sbrilluccichio ingannevole dei diamanti e delle carte di credito, come la nostra scoprirà a sue spese, e l’unico destino della donna tanto ingenua da abboccare all’amo è quello di essere usata a uso e consumo dei capricci dell’uomo, così com’è destino del povero o della povera nient’altro che l’essere schifato e calpestato dai ricchi, che mai potrebbero accettare di sedere a tavola con chi viene dai bassifondi (e qui la denuncia nei confronti della disparità sociale è ben più violenta, per tornare al paragone di cui sopra, della famosa scena del negozio di abbigliamento di Pretty Woman).
Sul fronte tecnico va assolutamente sottolineata l’agilità con cui Sean Baker si destreggia tra comicità e dramma, tra violenza e sensualità, senza mai lasciare che uno dei temi sovrasti gli altri; ad aiutare il regista sono ovviamente delle interpretazioni di grandissimo livello, su tutti una Mikey Madison che è riuscita addirittura a non farci storcere il naso quando ha sottratto l’Oscar a una Demi Moore che pure l’avrebbe meritato dopo la sua clamorosa interpretazione in The Substance.
La performance della giovane attrice è strepitosa e riesce ad assecondare perfettamente il film nel suo spostarsi continuamente dal registro comico a quello tragico, senza contare poi l’impegno nell’imparare il russo e nel prendere lezioni da vere stripper. Una piccola curiosità, in tal senso: Quentin Tarantino ci aveva visto lungo quando, nel suo C’era una Volta a Hollywood, aveva ingaggiato come membri della Manson Family dei giovanissimi e allora perlopiù sconosciuti Mikey Madison, Margaret Qualley, Austin Butler, Maya Hawke e Sydney Sweeney! In conclusione, dunque, non possiamo non considerare Anora come la prova che nel cinema ciò che conta non è necessariamente inventare, e che reinterpretare un classico con parole e prospettive nuove e utilizzandolo come lente tramite cui studiare la società attuale può bastare eccome a tirar fuori film la cui carica innovativa sta proprio nel filtro che viene offerto all’occhio dello spettatore/osservatore. Con buona pace di ogni sostenitore della reductio ad Cenerentolam.