Ricordo che quando lessi, da ragazzo, per la prima volta, il romanzo di Dumas, mi chiesi: come riuscì l’autore a far sì che Edmond Dantés, un marinaio povero e ignorante, fuggisse da una fortezza impenetrabile per poi trasformarsi in uno degli uomini più ricchi e più colti del suo tempo? Dumas era ricorso ad una soluzione a dir poco geniale. Quando Dantés venne rinchiuso nel Castello d’If – vittima di una condanna per gli intrighi di tre nemici – lì languiva da molti anni l’abate Faria, personaggio chiave del romanzo, uno degli uomini più colti e illuminati dell’epoca. Quel vecchio con i capelli bianchi e la lunga barba è un matematico, uno scienziato, un filosofo della storia, un mistico, un “mago”: conosce ogni cosa, ha letto tutti i libri. Dumas fa in modo che i due detenuti possano convivere in prigione, pur trovandosi in celle separate e in regime di assoluto isolamento. Dantés scorge lampi di scienza in ognuna delle parole di Faria, a sua volta l’abate si affeziona all’ingenuo marinaio, lo ama come il figlio della sua prigionia.
Il castello d’If era il carcere più duro della Francia, il che induce a pensare che l’autore scelse di proposito la città di Marsiglia, per rafforzare il suo romanzo con la “prodezza tecnica” di una fuga impossibile. L’abate Faria, imprigionato per motivi politici, non era più in grado, per l’età, di tentare una fuga, ma ci aveva provato creando un tunnel scavato quasi con le unghie. Ma aveva fatto male i calcoli, perché dopo lunghi anni di lavoro non era sbucato all’aria aperta, ma nella cella di Edmond Dantés. Allora si rese conto che non aveva più speranza, ormai era vecchio e gli mancavano le forze per ricominciare. Decise così che quel giovane marinaio lo avrebbe sostituito non solo nella fuga ma anche nella storia. Durante i lunghi anni di reclusione gli trasmette la sua saggezza, la sua cultura, l’arte della scherma e il modo di comportarsi fra la decadente aristocrazia europea. Alla fine, sicuro dei suoi insegnamenti, gli suggerisce il modo per fuggire: alla morte dell’abate il giovane ne avrebbe sottratto il cadavere dal sacco in cui l’avrebbero infilato per buttarlo in fondo al mare, e ne avrebbe preso il posto.
Nel 1829 l’abate Faria muore: cessa l’ultimo fremito del suo cuore, il volto diventa livido; e per quanto Dantés cerchi di chiuderli, i suoi occhi restano aperti, guardando di là, nel mondo della morte e dell’impossibile. Poco prima di spirare, l’abate aveva rivelato al giovane le chiavi di un fantastico tesoro nascosto in una piccola isola al largo della Toscana, l’isola di Montecristo. Questo tesoro avrebbe fatto di Edmond uno degli uomini più ricchi e potenti del mondo. Il giovane prende il posto del cadavere, e i carcerieri, buttando a mare il sacco, involontariamente lo liberano.
Quando riesce ad uscire dal sacco ed emergere dalle onde Dantés è, letteralmente, un “resuscitato”. Il tuffo nel mare è la sua resurrezione: da questo momento tutto cambierà, lui stesso, la vita, il mondo, il futuro.
Dopo quel salto vertiginoso nel Conte di Montecristo si apre un enorme vuoto. Trascorrono dieci anni che l’autore non racconta e che possiamo, con molta approssimazione, ricostruire grazie ai cenni successivi. In questi dieci anni Edmond Dantés vive molte vite. Accumula una gigantesca fortuna: viaggia in Italia, Grecia, Turchia, Egitto, frequenta i mercati d’oriente, compra schiavi, diventa amico dei sultani, scopre veleni e liquori magici. Tutta la moltitudine di marinai, di pirati e contrabbandieri che affolla il Mediterraneo, tutti i fuorilegge del Lazio e della Corsica guardano a lui come ad una sorta di misterioso Signore e Protettore. Il cuore della sua nuova esistenza è l’isola di Montecristo, al largo della costa toscana, che Dumas aveva circumnavigato, anni prima.
L’isola è in effetti una grande roccia spinta probabilmente da un terremoto vulcanico dal fondo degli abissi alla superficie del mare; o forse nata dall’ira di un Giove e scagliata nel mare. Isola solitaria e disabitata, ma è animata da cicale, lucertole, ulivi, capre selvatiche che la rendono una creatura vivente. L’abate Faria aveva parlato di quest’isola ad Edmond Dantés, raccontandogli che le sue grotte custodivano un tesoro del Rinascimento. Dantés vi sbarca, esplora le rocce: grazie al testamento-mappa dell’abate Faria si imbatte in una specie di scala che lo conduce in due grotte: in un angolo della seconda scopre un enorme baule stracolmo di lingotti e di scudi d’oro, di rubini, diamanti e perle. Il giovane non crede ai suoi occhi.
Da questo momento Dantés cambia nome: nasce il conte di Montecristo, e trasporta quel tesoro da Mille e una notte a Parigi. Edmond Dantés non cambia solo il nome, muta anche natura e carattere: si trasforma e si maschera come il più abile degli attori, il suo dono essenziale è il fascino: attrae le persone che ama (e talvolta anche quelle che odia) come se un fluido irresistibile emanasse “dal suo occhio profondo e melanconico, e dalla sua bocca disegnata con finezza meravigliosa.”
A Parigi, il Conte impianta una sorta di regno fantastico, roba da Mille e una notte: compra case e ville lussuose, possiede i più bei mobili e i più bei cavalli, incontra aristocratici e borghesi, banchieri e uomini politici, giornalisti: si impadronisce di ogni particolare della vita parigina: diventa il Signore che affascina tutti gli abitanti della città, nessuno può rivaleggiare con lui. La sua freddezza, il suo costante pallore che tanto lo avvicina ad un eroe byroniano, l’infallibilità del suo agire lo rendono irresistibile.
Montecristo non è un semplice personaggio, è l’incarnazione della Vendetta. Con crudele precisione si vendica di coloro che l’avevano calunniato e rinchiuso nel carcere di If. E quando si arresta nella vendetta, vinto dalla sua antica passione amorosa, prova quasi un senso di colpa perché sente di non aver compiuto fino in fondo la sua missione di vendicatore. E medita il suicidio. Ma poi in lui prevale una sorta di pentimento, vuole tornare alla sua giovinezza, vuole liberarsi dei panni del Conte e tornare ad essere Edmond Dantés. E prega l’abate Faria, il suo “secondo padre”, di liberarlo dalla furia vendicatrice. Dio lo perdona con l’amore che Haydee, la sua bellissima schiava greca, nutre per lui.
Mentre Montecristo lascia Parigi, una “serenità quasi sovrumana lo avvolge come un’aureola. Sembra un esiliato che ritrova la sua patria.” Calano le prime ombre della sera, soffia una brezza leggera; e sulla linea blu che all’orizzonte separa il cielo dal Mediterraneo, si scorge una vela bianca, sembra l’ala di un gabbiano. Insieme alla sua Haydee, Montecristo lascia per sempre il mondo del potere e della vendetta. Fugge. Non sapremo mai dove, perché la terra della speranza dove d’ora in poi andrà ad abitare, non ha né luogo né immagine.