La Shoah, lo sterminio sistematico degli ebrei perpetrato dal regime nazista durante la Seconda Guerra Mondiale, rappresenta uno dei capitoli più oscuri della storia dell’umanità. Sei milioni di vite furono cancellate in un piano di genocidio che sfruttò la macchina industriale e la propaganda per annientare non solo persone, ma anche la cultura e l’identità ebraica. A partire dai processi di Norimberga, il mondo ha iniziato a confrontarsi con la necessità di ricordare. I sopravvissuti come Elie Wiesel e Primo Levi divennero testimoni viventi di una tragedia inimmaginabile, trasmettendo attraverso le loro opere letterarie la crudezza della Shoah e l’urgenza di mantenerne vivo il ricordo.
Le istituzioni internazionali hanno risposto a questa esigenza attraverso la creazione di memoriali e l’istituzione di giornate commemorative, come il Giorno della Memoria il 27 gennaio. Tuttavia, il ricordo non è privo di tensioni: la memoria collettiva è influenzata da fattori politici e culturali. In Israele, ad esempio, lo Yad Vashem è non solo un luogo di commemorazione ma anche un simbolo dell’identità nazionale ebraica. La Shoah è diventata un punto cardine per giustificare la necessità di uno Stato ebraico sicuro, tema che si intreccia con il complesso rapporto tra memoria storica e attualità geopolitica.
La nascita di Israele e la Nakba palestinese
Con la fine della Seconda Guerra Mondiale e la creazione dello Stato di Israele nel 1948, il mondo assistette a un altro dramma umano: la Nakba, o “catastrofe”, per il popolo palestinese. Centinaia di migliaia di palestinesi furono sfollati, e molti si trovarono costretti a vivere in esilio o in campi profughi. Mentre Israele celebrava il ritorno alla terra promessa, i palestinesi vedevano le loro terre e case sottratte. Questo momento segnò l’inizio di un conflitto che sarebbe diventato una delle questioni irrisolte più complesse del XX e XXI secolo.
Il ricordo della Nakba è profondamente radicato nella coscienza collettiva palestinese, proprio come la Shoah lo è per gli ebrei. Entrambe le memorie, tuttavia, sono spesso utilizzate come strumenti politici. Israele ha consolidato la sua identità nazionale attorno alla necessità di sicurezza e alla memoria della persecuzione, mentre i palestinesi hanno fatto della Nakba un simbolo della loro lotta per il diritto al ritorno e all’autodeterminazione. Questi ricordi, lungi dall’essere solo storici, alimentano ancora oggi le narrative contrapposte che rendono difficile qualsiasi prospettiva di pace.
La memoria al centro del conflitto contemporaneo
Gli ultimi decenni hanno visto una crescente polarizzazione tra Israele e Palestina, con momenti di violenza che hanno scosso la comunità internazionale. Dalle guerre arabe-israeliane agli accordi di Oslo, fino all’Intifada (dall’arabo rivolta) e alle più recenti operazioni militari nella Striscia di Gaza, il conflitto ha continuato a mietere vittime e a rafforzare l’odio reciproco. La memoria storica gioca un ruolo cruciale in questa dinamica, con entrambe le parti che utilizzano la narrazione del passato per legittimare le proprie rivendicazioni.
In Israele, la Shoah continua a essere un pilastro dell’educazione civica, e il suo ricordo è spesso invocato per giustificare politiche di sicurezza percepite come necessarie per la sopravvivenza dello Stato ebraico. Dall’altra parte, i palestinesi commemorano la Nakba attraverso manifestazioni e iniziative culturali, mantenendo viva la memoria delle ingiustizie subite. Tuttavia, queste narrative parallele raramente trovano un punto di incontro, alimentando un circolo vizioso di recriminazioni.
L’attuale conflitto tra Israele e Hamas ha riacceso queste tensioni. La guerra in corso, iniziata lo scorso 7 ottobre 2023, non è solo una lotta per il controllo territoriale, ma anche uno scontro tra memorie contrapposte. Ogni bombardamento, ogni vittima, aggiunge un nuovo capitolo a un libro già troppo lungo di sofferenze e rancori. La comunità internazionale, pur riconoscendo la complessità della situazione, fatica a trovare soluzioni che tengano conto delle ferite storiche di entrambi i popoli.
Verso una memoria condivisa?
La possibilità di una pace duratura dipende, in parte, dalla capacità di Israele e Palestina di confrontarsi con il proprio passato in modo critico. Iniziative come il dialogo interreligioso e progetti culturali congiunti offrono spiragli di speranza, ma restano marginali rispetto alla narrazione dominante. La storia dimostra che una memoria collettiva capace di includere le sofferenze di entrambi i popoli potrebbe essere un primo passo verso la riconciliazione.
La memoria della Shoah e della Nakba non deve essere solo un monito contro l’odio, ma anche un invito a superare le divisioni. La sfida è enorme, ma la storia insegna che la pace è possibile solo quando il passato viene affrontato con onestà e compassione. Mentre il mondo osserva con apprensione l’evolversi del conflitto, il ricordo deve essere il ponte che unisce, non il muro che divide. Ed è proprio di questi giorni che un piccolissimo passo verso una tregua momentanea farebbe intravedere un infinitesimo spiraglio di luce qualora personaggi in auge dalla parte israeliana cessassero di mantenere quella presunta arroganza di un un ruolo egoico di comportamenti dissennati, ed ancor di più se decidessero di liberare dopo 23 anni di carcere il leader palestinese che non compare nella lista dei palestinesi che Tel Aviv è disposta a rilasciare, Marwan Barghouti, noto anche come il “Nelson Mandela palestinese”. É uno dei leader più amati e anche rispettati; secondo alcuni Marwan Barghouti rappresenta una delle poche, se non l’unica figura in grado di mediare per un vero e proprio processo di pace duraturo. Ecco perché la sua mancata liberazione, renderebbe già fragile, e soprattutto temporanea, la tregua in Medioriente.
Come scrive Primo Levi nel suo capolavoro “Se questo è un uomo”: “Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre.”
Queste parole non sono solo un monito, ma un imperativo morale a costruire un futuro in cui la memoria sia il pilastro di una convivenza pacifica, non un’arma di divisione.