Alfredo Erra, l’uomo che ha ucciso la trentenne Anna Borsa, è stato condannato all’ergastolo dalla Corte di Assise di Salerno. I giudici hanno riconosciuto tutte le aggravanti, compresa la premeditazione. Non è stata accolta la richiesta del difensore dell’assassino, avv. Pierluigi Spadafora, il quale aveva invano tentato di dimostrare l’incapacità di intendere e di volere del 42enne.
Il 1° marzo 2022 suscitò sgomento ed incredulità nel comune picentino e nel vicino capoluogo l’assassinio della giovane donna, appena trentenne, avvenuto all’interno di un negozio di parruccheria ove lavorava a via Trento a Pontecagnano. Anna aveva interrotto la relazione otto mesi prima ed era stata minacciata di morte dall’ex più volte oltre ad essere tormentata da centinaia di telefonate al giorno ed improvvisate nel negozio. Addirittura in due occasioni le aveva anche gettato addosso dell’alcol e della benzina. Nonostante questi gravissimi ed allarmanti precedenti, la giovane parrucchiera non aveva sporto denuncia.
Nei giorni che precedettero immediatamente l’assassinio Anna era apparsa molto preoccupata, tanto che aveva paventato la possibilità di lasciare Salerno. Quella mattina la ragazza fu raggiunta nel negozio dall’ex una prima volta, quando l’Erra con apparente tranquillità le disse che era lì per salutarla perché a breve avrebbe lasciato Salerno. Quando vi è ritornato la seconda volta nella medesima giornata, mantenendo sempre un atteggiamento pacato, l’Erra ha seguito la giovane nello sgabuzzino dove Anna era andata per lavarsi le mani e l’ha gelata a sangue freddo con un colpo di pistola alla tempia; immediatamente poi, ugualmente in loco, tentò il suicidio sparandosi un colpo alla testa, ma il proiettile restò conficcato nel cranio senza ucciderlo. Nell’udire gli spari accorsero il titolare dell’attività e Alessandro Caccavale, il nuovo fidanzato di Anna. L’Erra era a terra, ma ciò non gli impedì di sparare al torace quello che considerava il suo rivale, ferendolo.
L’Erra a quel punto si diede ad un’improbabile fuga in un primo momento in auto, parcheggiandola nei pressi della ditta dove lavorava. In quel frangente comunicò frettolosamente al titolare di aver ucciso Anna e continuò la propria fuga a piedi ma venne bloccato qualche ora dopo dalla polizia stradale di Eboli nei pressi dell’autogrill di San Mango Piemonte mentre percorreva a piedi con un trolley di colore blu l’autostrada Salerno – Reggio Calabria.
Resta il dolore per una giovane vita spezzata, ma anche la rabbia per l’assenza assoluta di denunce. Purtroppo molte donne, in particolare le più giovani, che subiscono atti persecutori e minacce ritardano od omettono le denunce alle autorità, a volte perché erroneamente ritengono che a breve l’ex si rassegnerà e smetterà siffatti comportamenti, altre volte perché interpretano la denuncia come il dover relazionarsi successivamente con interventi di pubbliche autorità, interrogatori nel corso dei quali devono esporre vicende della propria precedente vita di coppia delle quali immotivatamente se ne vergognano. Altre volte ancora ciò che blocca la vittima nello sporgere denuncia è un ingiustificato senso di colpa che scaturisce dal dover esporre al rischio di conseguenze autoritarie e giudiziarie l’uomo che si è amato, con conseguenze anche sul piano strettamente psicologico per la denunciante anche in ordine alle scelte sbagliate fatte in precedenza.
Per molte donne dunque denunciare significa dare diffusione pubblica di un proprio problema che altrimenti risulterebbe – a loro erroneo parere – meno grave e più velocemente risolvibile. E’ evidente che tale posizione scaturisce sempre da una sottovalutazione dell’effettiva gravità degli eventi e dal ritenere inesattamente che ciò che si ascolta o legge in tv o sul web relativamente alla violenza di genere appartiene ad “altre” e non possa mai capitare a sé stesse.
L’invito dunque è quello a denunciare non appena si manifestano i primi segnali di morboso possesso da parte del partner, prim’ancora che si verifichino violenze, perché le nostre leggi tutelano anche i soggetti che subiscono condotte che ingenerano un fondato timore da parte della vittima di un male più grave, senza che necessariamente vi siano lesioni o maltrattamenti.