Il 28 settembre 1571 nasceva uno dei geni della pittura di tutti i tempi: Michelangelo Merisi da Caravaggio. Ma oltre 450 anni non sono stati sufficienti a svelare e a precisare la sua vita e la sua personalità, che restano avvolte in gran parte in un fosco mistero. Si sa con certezza che fu un “seminator di scandali e di scisma”, “torbido e contentioso” e che fu, infine, assassino. Ma la parte più profonda e importante di lui, e cioè il perché, il nodo diremmo, del suo genio e delle sue passioni, resta un enigmatico e affascinante interrogativo, come vedremo seguendo la disperata esistenza di questo “gran lombardo” capace di creare capolavori fin dall’adolescenza ed insieme spinto e travolto dal suo sangue violento e avvelenato. Un’esistenza che ci appare quasi commovente: quella di un indemoniato che incida suo malgrado messaggi di angelica bellezza e di umano ardore, lasciando sbalorditi gli uomini del suo e di ogni tempo.
Sappiamo dunque che si chiamava di nome Michelangelo, ma il cognome è incerto: forse fu Merisi, ma i documenti dicono anche Amerigi, Merigi, Merighi, Merizi, Amarigi ecc. Si sa che suo padre, di nome Fermo, era “maestro di casa”, cioè in pratica architetto del marchese di Caravaggio, Muzio Sforza, che abitava a Milano. Può darsi quindi che il pittore sia nato non a Caravaggio (paesino a un tiro di schioppo da Treviglio, in provincia di Bergamo) ma a Milano : tanto è vero che nel registro parrocchiale di Caravaggio (registro asportato nel 1903, e non più restituito) non figurava per quel periodo nessun battezzato di nome Michelangelo Merisi. Ci sono, è vero, due epitaffi tramandati dal giureconsulto Marzio Milesi che confermano luogo e data, ma è difficile stabilire se siano autentici.
Rimasto orfano del padre, il 6 aprile 1584 (e questa è la prima notizia documentata) Michelangelo entra come apprendista nello studio milanese del pittore Simone Pederzano, di origine bergamasca; fideiussori del giovanetto sono Giambattista e Bartolomeo Baschi, pellicciai, suoi compaesani. Per quattro anni il ragazzo studia con diligenza anche se talvolta si abbandona a qualche “stravaganza”. Il trasferimento dello zio prete, Ludovico, a Milano coincide con la fine dell’apprendistato. Il sacerdote ricoprirà incarichi importanti e abiterà in arcivescovado. Non possiamo escludere che grazie all’aiuto dello zio prete il giovane Michelangelo abbia potuto ottenere qualche incarico o collaborazione.
Siamo nel periodo che va dal 1587 al 1591. Non abbiamo documenti sulla sua attività pittorica, ma siamo sicuri di alcuni soggiorni al paese natale. Il 25 settembre 1589 vende un suo terreno con il consenso della madre, che nell’ottobre dell’anno seguente, un mese prima della sua morte, fa testamento.
Nel maggio del 1592 il giovane sparisce con un discreto gruzzolo: 393 “imperiali” ricevuti in eredità. Michelangelo sembra sparire nel nulla. Ha inizio il romanzo nero di Caravaggio. Non ci sono documenti e dobbiamo allora riferirci ai suoi due primi biografi, suoi contemporanei, Giulio Mancini, medico senese e Giovanni Baglione: sperpera il suo piccolo patrimonio e sembra che sia stato più di una volta messo in carcere per rissa, e che abbia addirittura ucciso un uomo. Sarà vero? Comunque sia Caravaggio fugge da Milano e si rifugia a Roma. Una vita dura, senza denaro e vestito di stracci, vive in miseria. Soffre la fame e deve arrangiarsi facendo piccoli lavori per questo o quel pittore. Alloggia in locande miserevoli, come uno straccione qualsiasi fino a quando non incontra il primo mecenate, monsignor Pandolfo Pucci da Recanati, che lo tratta non proprio benissimo, offrendogli da mangiare solo insalata, tanto che il pittore soprannominò quel suo “benefattore” Monsignor Insalata. Viene ricoverato, sfinito, forse per malnutrizione, all’ospedale della Consolazione.
Dimesso, entra nello studio del cavalier D’Arpino, pittore già noto, che lo mette a dipingere fiori e frutti. Ma ben presto, stufo di quell’anonimo lavoro, Caravaggio prima va al servizio di monsignor Fantin Petrignani, che gli offre una stanza, poi decide di mettersi in proprio. Ma le cose gli vanno male: prova a fare alcuni quadretti (che erano già dei capolavori), ma non riesce a venderli. E quando trova, raramente, un acquirente, viene pagato con pochi denari. Poi, finalmente, la fortuna comincia a sorridere all’ostinato giovane pittore. Caravaggio ha 23 anni quando, grazie ad un certo maestro Valentino, venditore di quadri in San Luigi dei Francesi, conosce il cardinale Del Monte che rimane colpito dalla sua bravura e lo accoglie nel suo palazzo.
Finiva così il periodo della miseria, delle locande malfamate, dei rifugi di fortuna: ma non quello delle baldorie e delle risse. Tuttavia Caravaggio è già un genio (è di questo periodo, tanto per citare un celebre quadro, lo stupendo “Canestro di frutta che si trova all’Ambrosiana di Milano), sa ciò che vuole ed è consapevole della sua grandezza. Non ha avuto mai veri maestri, e sua unica maestra era stata la vita: gli uomini, la natura. Come lo giudicavano i critici del suo tempo? Il Baglione scrisse che il Caravaggio fu “uomo satirico e altiero”, che diceva male di tutti i pittori passati e presenti, anche insigni, perché era convinto di averli superati tutti con le sue opere. Lo Scannelli lo definì “unico mostro di naturalezza, portato dal proprio istinto all’imitazione del vero e provvisto di particolare genio.”
Genio a venticinque anni, come dimostrano i due capolavori “La vocazione di san Matteo” e “Il martirio di san Matteo” della chiesa di san Luigi dei Francesi di Roma, commissionatigli nel 1598. Quadri che furono contestati per il loro realismo. Il successo di queste opere fu clamoroso e scandaloso, e irritò molto gli altri pittori allora in voga. Caravaggio si ritrova celebre quasi di colpo, ma non cambia vita. Il 19 novembre 1600 viene querelato per aver percosso il pittore Gerolamo Spampa di Montepulciano; ai primi di febbraio del 1601 ferisce con la spada, durante una rissa, Flavio Canonico, sergente di Castel Sant’Angelo; il 28 agosto dello stesso anno viene querelato dal Baglione e messo in carcere. Viene rilasciato il 25 settembre, ma già nel novembre si trova coinvolto in un’altra zuffa.
Genio e sregolatezza, capolavori e risse. Ed ecco come Karel van Mander, pittore fiammingo, scrive di lui in data 31 agosto 1603: “Là in Italia c’è anche un Michelangelo da Caravaggio che fa a Roma cose meravigliose. Egli pure è faticosamente uscito dalla povertà mediante il lavoro assiduo, tutto afferrando e accettando con accorgimento e ardire…è uno che non tiene in gran conto le opere di alcun maestro, senza lodare apertamente le proprie…non si consacra di continuo allo studio, ma quando ha lavorato un paio di settimane, se ne va a spasso per un mese o due, con lo spadone al fianco e un servo dietro, e gira da un gioco di palla all’altro, molto incline a duellare e a far baruffe, cosicché è raro che lo si possa frequentare.”
Due settimane di lavoro, durante le quali dipinge madonne, sante e santi che sono il ritratto delle donne che ha visto e frequentato nelle osterie, dei giovanotti con i quali ha giocato e litigato; e poi uno o due mesi di spensieratezza rissosa, di ricerca inquieta di chi sa cosa. Ed è questo un modo di vivere strano per un lombardo o bergamasco che sia. Ma evidentemente Caravaggio aveva altro sangue nelle vene, altri estri nel cervello, ed altri veleni nel cuore. Il 24 febbraio 1604 viene denunciato per aver tirato in faccia a un certo Fusaccia, garzone dell’osteria del Moro, un piatto di carciofi. E nell’ottobre seguente viene arrestato per la strada che da Trinità dei Monti porta a Piazza del Popolo per aver preso gli sbirri a sassate. Il 6 febbraio 1606 denuncia un suo degno compare, certo Alessandro Ricci, il quale a suo nome aveva carpito un tappeto a Cosimo Coli, furiere del papa; nel maggio dello stesso anno viene arrestato per porto abusivo di armi e nel luglio seguente viene imprigionato per questioni di donne; una volta fuori di prigione ferisce lo scrivano Mariano Pasqualone in difesa di una donna di nome Lena, sua modella e forse amante.
Dopo questo ferimento Caravaggio fugge a Genova, vi rimane qualche settimana, poi ritorna a Roma, dove si rappacifica con Pasqualone. Sembra di leggere la scheda di un delinquente abituale: una scheda che con ritmo crescente continua a registrare sempre nuove risse. Infatti, il 1° settembre 1605 Caravaggio dà fuori di testa e prende a sassate la finestra della sua affittacamere Prudenzia Bona che, durante la sua fuga a Genova, gli aveva sottratto della roba. Poi, il 29 maggio del 1606, il fatto più drammatico: per un fallo al gioco della pallacorda (oggi la chiameremmo racchetta, gioco del tennis, insomma), ai campi del Muro Torto, sotto villa Medici, Caravaggio scatena una rissa: rimane ferito, si difende e con un colpo di spada uccide Ranuccio Tommasoni da Terni, individuo noto all’autorità giudiziaria. Caravaggio, abituato alle liti e ai duelli, forse nel vedere il sangue dell’uomo da lui ucciso ha un attimo di sgomento e di terrore; o forse non fa una piega, travolto com’è dal suo terribile temperamento.
Ad ogni modo fugge, lascia Roma e si rifugia prima a Palestrina, poi a Paliano e Zagarolo, nelle proprietà del suo protettore principe Marzio Colonna, in attesa dell’amnistia. In questo periodo dipinge una “Maddalena” che porterà con se a Napoli, poi sarà la volta della “Cena in Emmaus”. Intanto l’amnistia tardava a venire, e sul finire del 1606 , con i guadagni ricavati dalla sua “Cena”,ripara a Napoli. Qui vive un intenso periodo di lavoro. Il vicerè in persona, Juan Alonso Pimentel y Herrera gli chiede di dipingere una “Crocifissione di Sant’Andrea”. Caravaggio accetta. Qualcuno ha ipotizzato che la tela fosse destinata alla cripta della cattedrale di Amalfi, dove è tuttora sepolto l’apostolo. Ma lo spazio angusto della cripta rende improbabile questa ipotesi. E’ più probabile, invece, che l’incarico sia stato dato dal vicerè per arricchire la sua preziosa collezione privata. Il pittore ormai sembra essersi lasciati alle spalle tutti i suoi guai. Le commissioni si susseguono in maniera vorticosa. Dipinge la “Morte della Madonna”, la “Resurrezione di Cristo”, “Le sette opere di misericordia”, la “Madonna del rosario”, “Giuditta e Oloferne”.
Sempre inquieto, dopo un breve viaggio a Modena (non se ne conosce il motivo) il pittore torna a Napoli. Di certo il pittore è stato accolto nella città partenopea molto favorevolmente, è ormai un pittore famoso. Ma l’insoddisfazione di una esistenza precaria, il timore di essere riportato in galera si manifesta ogni giorno di più. Sente la necessità di liberarsi da quel macigno che incombe della condanna a morte inflittagli a Roma. E così, ai primi di luglio si imbarca per Malta, grazie all’interessamento di Ippolito Malaspina, priore dell’Ordine di Malta nella città di Napoli. Il nobile Ippolito era lo zio della seconda moglie di Ottavio Costa, il maggiore committente in Roma di Caravaggio; ma era soprattutto intimo amico del Gran Maestro maltese Alof de Wignacourt.
Caravaggio dopo due settimane di permanenza nell’isola, dedica al maestro Wignacourt due ritratti che riscuotono notevole successo. Successo che gli procurerà, il 14 luglio 1608, l’ingresso nell’Ordine di Malta come “cavaliere di grazia”. Il Caravaggio, non essendo nobile non può aspirare al “cavalierato di giustizia”, e deve sottoporsi ad un anno di noviziato in un convento. Ormai è entrato nelle grazie del Gran Maestro dell’Ordine e il soggiorno nell’isola si prospetta molto promettente. Wignacourt, infatti, gli affida l’incarico della “Decollazione del Battista”, uno dei punti più alti dell’arte caravaggesca. Il pittore è speranzoso: il successo ottenuto, la protezione e la stima del Gran Maestro potrebbero aprirgli le porte della riabilitazione. Ma ben presto accade l’irreparabile: una contesa dai contorni non chiari con un Cavaliere di Giustizia lo getta in carcere da dove, il 6 ottobre 1608, come un eroe romantico, fugge in maniera rocambolesca e si rifugia in Sicilia. Qui vive un periodo di calma: a Siracusa si interessa di archeologia, dà il nome di “Orecchio di Dionisio” alla Grotta delle Latomie. Dipinge una pala d’altare per S. Lucia, nella chiesa dedicata alla patrona di Siracusa. E dipinge ancora, a Messina, a Palermo. Alla fine dell’estate del 1609 torna a Napoli. Non conosciamo i motivi che spingono Caravaggio a lasciare la Sicilia.
Possiamo solo fare delle ipotesi. E’ un perseguitato, e quindi è comprensibile che il suo stato d’animo non sia dei migliori: a suo carico pendono due provvedimenti: la condanna a morte sancita a Roma e la sentenza maltese. I Cavalieri soprattutto non erano disposti a dimenticare, la vendetta era solo questione di tempo, la loro longa manus poteva agguantarlo in qualsiasi luogo. Quindi può darsi che la decisione di lasciare la Sicilia possa essere inquadrata in questa ottica. Ed ecco allora l’imbarco da Palermo per Napoli: tornava nella città che in qualche modo lo aveva protetto e dove aveva lasciato mirabili segni del suo genio. A Napoli è accolto ancora una volta dai Colonna, viene ospitato a Chiaia presso il palazzo Cellamare della Marchesa Costanza Sforza Colonna. Ora il pittore si sente come protetto, a Napoli ha raggiunto la fama e con essa cospicui guadagni.
A Chiaia apre la sua bottega, ospita pittori del calibro di Martinez e Velasquez. Sono di questo periodo i dipinti “Crocifissione di Sant’Andrea”, la “Negazione di San Pietro”, il “Martirio di Sant’Orsola” e il celebre “Davide con la testa di Golia”. Ha appena ultimato la tela in cui Pietro rinnega il Maestro quando viene selvaggiamente aggredito all’ingresso della locanda del Cerriglio, dalle parti di via Monteoliveto. La locanda dove avviene l’aggressione era nota per la qualità del cibo e del vino, e anche per la presenza di attraenti prostitute . Particolare curioso: in quel periodo la locanda era sorprendentemente affidata alle suore del vicino monastero di Santa Chiara, che si preoccupavano delle buone rendite del locale, senza farsi troppi scrupoli dei bagordi e dei piaceri offerti. Napoli era anche questo. Le ferite riportate dal pittore lo costringono a rimanere inattivo per qualche tempo. Sono giorni di dolore e di sofferenza.
Intanto sul soglio pontificio è salito un grande papa, Paolo V Borghese, un pontefice che ha avuto modo di apprezzare la sua arte, ed è probabile che il pittore in cuor suo speri in una revisione del processo, in una riabilitazione. Ha ancora tanta voglia di mettere la sua arte al servizio della Chiesa. Spesso, nelle biografie dedicate al geniale pittore, si è enfatizzato sul suo aspetto criminale, ma in lui c’era anche un notevole spirito religioso che gli aveva aperto le porte dell’Ordine dei Cavalieri di Malta e che aveva manifestato con le sue testimonianze pittoriche. Certo, il carattere restava quello a noi noto, ma la linea tra la volontà razionale e l’impulsività irrefrenabile col tempo avevano subìto modifiche; il tempo, le angosce del rischio avevano mitigato la baldanza degli anni della prima giovinezza. Ora il suo più grande desiderio era quello di tornare a Roma e ottenere la riabilitazione. Egli sa che, oltre al cardinale Del Monte si sta occupando del suo caso proprio il cardinale Borghese nipote del papa.
Le speranze sono rafforzate anche dall’intervento di un illustre e influente prelato, il cardinale Ferdinando Gonzaga, che a sua volta ha accolto le richieste in favore del pittore da parte di Lorenzo De Franchis, gran committente del Caravaggio a Napoli. Insomma, Caravaggio ha quasi la certezza di ottenere la grazia. Una feluca lo attende alla spiaggia di Chiaia, porta con sé tre tele e il denaro necessario. I tre quadri sono destinati al cardinale Scipione Borghese. Caravaggio vuole così esprimere il suo profondo ringraziamento per quanto il cardinale sta ottenendo, o ha già ottenuto, dallo zio papa. La feluca parte, è diretta a Palo, porto non distante da Roma, tra Ostia e Civitavecchia, poco sorvegliato e dove sarebbe bastato fare qualche nome di cardinale per sentirsi tranquilli. Ma l’avverso destino sembra accanirsi. Caravaggio viene fermato e arrestato. Pur di essere rilasciato cede tutto quello che ha al capitano delle guardie pontificie.
Quando esce dal carcere la feluca con le sue tele ha preso il largo. Caravaggio si rende conto che non può tornare indietro, si trova in territorio pontificio dove è ancora un condannato a morte. Punta su Porto Ercole, dove è diretta la feluca e riprendersi le tele, forse spera di potersi presentare direttamente al Granduca, che sicuramente lo avrebbe ben accolto. Ma non può giungervi a piedi, ci sono quasi cento chilometri da percorrere. E’ probabile che abbia ottenuto un provvidenziale passaggio per mare. Sbarca a Porto Ercole. Intanto il suo stato di salute peggiora: alle non buone condizioni fisiche (non si era ripreso del tutto dalla feroce aggressione di Napoli) si aggiunge la febbre malarica che infesta quei luoghi. Sfinito, solo, trova rifugio in una capanna sul litorale. Muore probabilmente per setticemia causata dalle infezioni delle sue varie ferite.
E’ il 18 luglio 1610.