Quando Leopardi immaginò “l’Infinito” era probabilmente accovacciato a ridosso della siepe, alta quanto bastava per impedirgli lo sguardo su “tanta parte dell’ultimo orizzonte”, sul dolce paese che lo circondava da ogni parte, come un mare. Per pensare l’Infinito aveva bisogno di avere intorno a sé un confine, un muro, una siepe: aveva bisogno di sentirsi chiuso in un carcere immaginario, e solo dietro il quale, come il prigioniero più desideroso, poteva immergersi negli spazi infiniti.
Ci si potrebbe chiedere: perché mai Leopardi si era allontanato da casa, aveva attraversato la campagna, salito sul colle? Non era sufficiente la sua stanza? Come Pascal, Rousseau e Dostoievskj, anche lui sapeva benissimo che la stanza più chiusa e oscura, la più ossessionante clausura, sono forse il luogo più adatto per immaginare universi col pensiero. Ma, evidentemente, in quel periodo Leopardi viveva una condizione più complessa: preferiva, “doveva” avere l’infinito lì, a portata di mano, per poterlo cancellare e costruirsene un altro con la propria mente. Accovacciato contro la siepe, segregato da tutto, aveva un solo spazio dove i suoi occhi potessero perdersi: la sommità del cielo.
Com’è noto, Leopardi adorava i delicati spettacoli che l’indefinito offre alla nostra fantasia: un viale alberato, una torre che si staglia in lontananza, una strada lunga e dritta…e poi la luce, del sole o della luna, e il suo penetrare in luoghi dove divenga incerta, come attraverso un canneto, una selva, i balconi socchiusi: tutti i punti nei quali la luce si confonde con le ombre. Nulla avrebbe dunque dovuto incantarlo più dei giochi mutevoli che la luce del sole faceva con le nuvole che dall’Appennino correvano verso il mare, o dal mare risalivano verso l’Appennino: luce che diventava ombra, ombra che diventava luce.
Ma, in quei momenti, a Leopardi non interessavano gli spettacoli offerti dall’indefinito: con la sua proverbiale volontà si proibì ogni fantasticheria. Sembra quasi di vederlo: i suoi occhi non guardano né il cielo, né la siepe; guardano “dentro”, concentrati a percepire la pura visione interiore. Così, concentrato e avulso dalla realtà, Leopardi comincia a creare, come un sommozzatore si immerge negli abissi della propria anima. Allora il giovane Giacomo (aveva ventuno anni) non si rendeva conto, ma lo capirà di lì a qualche anno, che la sua era un’impresa impossibile. La mente umana non può afferrare l’Infinito.
Nello “Zibaldone” scriverà che né la nostra facoltà conoscitiva, né quella affettiva, né quella immaginativa sono in grado di afferrare l’infinito, di concepire infinitamente; ma possono cogliere solo l’indefinito e di concepire indefinitamente: Come dire che del nostro sogno noi possiamo possedere soltanto le apparenze, mai la sostanza.
Il tentativo che Leopardi fa guardando con occhi vuoti e ciechi è il disperato, sovrumano tentativo di pensare qualcosa che è impensabile.
Rannicchiato dietro la siepe, precipita in preda alle supreme sensazioni: l’eterno con la sua infinita potenza, il passato con i suoi pensieri indefiniti e la piacevole malinconia che lo avvolge, il presente con lo splendore e l’effimero di ogni giovinezza. Il suo pensiero si lascia catturare da questo vortice di sensazioni: l’eterno ondeggia e scivola sul tempo, il passato sul presente, finché tutte queste sensazioni confluiscono in un’unica dimensione, in un solo “mare”.
A questo punto la mente ha perso ogni controllo: un accavallarsi di sensazioni la invade e la possiede senza più incontrare ostacoli. Ma cos’è il “mare” cui fa cenno Leopardi? E’ l’Infinito che dà il titolo alla poesia? Forse no. Adesso il fruscio del vento interrompe la concentrazione del poeta: ora l’Infinito puro, al quale tutti dobbiamo rinunciare, è solo un ricordo, qualcosa di evanescente, di inafferrabile, sommerso dal vortice dei sogni. Il “mare”, “l’immensità” nel quale si perde, è “l’indefinito”, l’unica cosa che l’uomo può raggiungere.
I versi che all’inizio orgogliosamente credono di creare un infinito mentale, si concludono col totale naufragio dell’Io pensante nel mare delle sensazioni. Ma il naufragio è dolce, estatico. Per Leopardi, così come per Rousseau e Proust, la vera beatitudine consiste nell’abbandono passivo alle immagini, che qualcosa lieve come lo stormire del vento tra le foglie risveglia dal nulla e va ad invadere dolcemente la nostra anima.