Giacomo, Taldegardo, Francesco, Salesio, Saverio, Pietro Leopardi di san Leopardo nasce a Recanati il 29 giugno 1798 dal conte Monaldo e dalla marchesa Adelaide Antici. Ben presto Giacomo esprime le classiche doti dell’enfant prodige: a 10 anni traduce Omero, a 15 gode fama di classicista e filologo.
Dovrebbe avere tutte le ragioni di questo mondo per essere soddisfatto. Invece non lo è affatto. Colpa della cattiva salute, del rachitismo congenito, della malattia agli occhi? Sarebbe una giustificazione ben misera alla grandezza del pessimismo leopardiano. Anche se questa, dopo essere stata un’accusa precisa di Niccolò Tommaseo al poeta durante il soggiorno fiorentino, è una tesi che si riaffaccia in Croce e nelle convinzioni dello scienziato positivista Cesare Lombroso. Ma è una tesi smentita dallo stesso Leopardi in una lettera del 24 maggio 1832 a Luigi de Simmer: “Prima di morire, voglio protestare contro questa invenzione della debolezza e della volgarità, e pregare i miei lettori di impegnarsi a distruggere le mie osservazioni e i miei ragionamenti piuttosto che accusare le mie malattie.”
Certo, la malattia, la deformità devono aver indotto Leopardi a riflettere fin dall’adolescenza sui condizionamenti che la natura esercita sull’uomo. Ma non può trattarsi solo di questo. Il critico letterario Renato Minore, autore di una pregevole biografia intimista, quasi psicanalitica di Leopardi, è convinto che la sua pena di vivere risalga all’ambiente familiare e a quello, provinciale e bigotto, dell’allora Marca Pontificia in cui si trovava Recanati. Indubbiamente i rapporti tra il poeta e la famiglia sono molto complessi.
Da una parte c’è, in Leopardi, il rifiuto ideologico di ciò che ha appreso in famiglia, la religiosità venata di bigotteria, il blasone nobiliare; dall’altra, l’incapacità a recidere il cordone ombelicale affettivo, soprattutto col padre Monaldo, un legame che più tardi lo indurrà a cercare di nascondergli il contenuto delle “Operette morali” per non addolorarlo. E poi c’è “il natìo borgo selvaggio…che m’odia e fugge…” ad accentuare la sua tristezza, il suo pessimismo. Leopardi vive, nei confronti del proprio paese, una sorta di complesso di persecuzione, complesso che emerge anche da una lettera del dicembre 1817 al classicista Pietro Giordani: “…in Recanati, poi, io son tenuto quello che sono, un vero e pretto ragazzo, e in più ci aggiungono i titoli di saccentuzzo, di filosofo, di eremita o che so io…”
Proprio nello stesso anno, in questo quadro entra un elemento nuovo: una lontana cugina del padre, Geltrude Cassi Lazzari, una signora pesarese di 26 anni. Geltrude arriva, seduce Giacomo e riparte. Al poeta non resta altro che tornare “agli studi leggiadri” e “alle sudate carte”.
Nel novembre del 1820, nella dorata gabbia di Recanati, sembra aprirsi uno spiraglio: Monaldo permette al figlio di partire per Roma. Sarà una delusione. Lo stesso ambiente degli antiquari, tanto vagheggiato a Recanati, lo delude. La differenza tra aspettative e realtà fu scioccante ed enorme fu la delusione di non trovare un lavoro che lo avrebbe affrancato dal dipendere dalla famiglia. Così Leopardi, il 3 maggio 1821, è costretto a tornare nell’odiata Recanati. A questo punto il suo mal di vivere diventa cronico. Neppure la visione della natura lo conforta più.
Il 26 settembre dello stesso anno parte per Bologna. Anche qui delusione e “noia”. Anche qui cade inutilmente ai piedi di una mediocre poetessa, Teresa Carniani Malvezzi, che in Giacomo vede solo la possibilità di apprendere l’arte poetica che le è preclusa. Da Bologna si trasferisce a Firenze, da qui a Pisa, da Pisa di nuovo a Recanati dove trascorre “sedici mesi di notte orribile”. Poi di nuovo a Firenze: la “noia” giunge al culmine mentre la salute declina sempre di più.
Nel capoluogo toscano Leopardi entra in contatto con i liberali del circolo di Giampiero Viesseux, l’editore dell’”Antologia”: Pietro Colletta, Gino Capponi, Giambattista Niccolini, l’odiato Tommaseo. Viesseux, che amava teneramente Leopardi, gli offrì più volte di collaborare in qualunque forma all’”Antologia”. Ma il poeta gli oppose come rifiuto l’assoluto disinteresse per i temi sociali. A Firenze Leopardi incontra anche Antonio Ranieri, giovane espatriato napoletano e autore del libro “Sette anni di sodalizio”, che tante polemiche suscitò al suo apparire.
“Si è parlato addirittura di un rapporto omosessuale tra Ranieri e Leopardi”, dice Renato Minore, “si sono citate a riprova le lettere che il poeta gli inviava. Io non lo credo. In parte il tenore delle lettere è dovuto allo stile effusivo del tempo, in parte all’ammirazione, direi quasi al processo di identificazione di Leopardi, gobbo e malato, nei confronti di Ranieri, bello, sano, solare, corteggiatissimo dalle donne.”
Forse è all’interno di tale identificazione che Leopardi all’accesa amicizia per Ranieri sacrificherà, giungerà ad offrirgli Fanny Targioni Tozzetti, dispostissima ad essere sacrificata. Il gesto di Giacomo rafforzerà l’amicizia con Ranieri. E nel 1833 decidono di trasferirsi insieme a Napoli. E a Napoli cosa trova? Il romanticismo, i fermenti liberal-progressisti che prenderanno forma solo con i moti del ’48. Il tutto suggellato dal clima della Restaurazione. Inutile dire che nulla di tutto ciò è congeniale al poeta. Povero Leopardi! Spiritualismo, romanticismo, progressismo e tirannide: ciò che ama di meno al mondo. Si sfogherà con una delle più straordinarie, dirompenti satire mai scritte: “La Palinodia al marchese Gino Capponi”.
L’unico conforto viene a Leopardi dalla riscoperta antiquariale nella Napoli di quegli anni. Vede Pompei ed Ercolano, abita per un periodo sotto l’asfissiante tutela di Ranieri, in una villa di Torre del Greco. Qui, in vista del deserto di lava che ha ricoperto le città romane un tempo prospere, scrive “La Ginestra”. Il periodo napoletano è forse il meno triste della vita del poeta: il clima mite, la cordialità della gente sembrano rinfrancarlo. Ma la nera Signora con la falce è in agguato: lo coglierà il 14 giugno 1837.