L’uomo venuto dal Nord s’innamorò del profondo Sud. Il torinese Carlo Levi, in Lucania, vi arrivò nel 1935 ammanettato e scortato dai carabinieri. In borsa aveva un volume di Montaigne e nel cuore l’orrore per quei luoghi primitivi e arcaici dove il fascismo lo confinava. Ma solo un anno dopo, il pittore e medico che, costretto dalla necessità, aveva cominciato a curare i malati in quei posti desolati, il militante politico di formazione liberale e gobettiana, si era ricreduto.
Nel 1936, quando lo lasciò, il Meridione gli appariva il contrario della prima impressione: un paradiso perduto. A Firenze tra il ’43 e il ’44, chiuso in casa mentre fuori si abbatteva una pioggia di bombe, cominciò a ripensare allo sperduto Eden, le aride pietraie, i volti rugosi dei contadini, la ritualità a volte crudele che permeava la loro esistenza e le loro secolari credenze. E dedicò alla Lucania quello che doveva diventare, appena uscito nel ’45, il libro-cult del dopoguerra :“Cristo si è fermato a Eboli”.
La cronaca appassionata dell’esilio dove lo scrittore ebreo era stato mandato per la sua attività antifascista gettò le basi per un modo nuovo di considerare il Sud. Anche se il linguaggio del colto e raffinato autore (che tra i suoi narratori prediletti aveva Stendhal) e quello della società ancestrale sembravano lontani anni luce, scattò una scintilla. Lo sguardo dello scrittore inaugurò persino un’inedita forma di considerazione per la vita di quel mondo apparentemente incomprensibile.
Ma com’era Carlo Levi prima del confino? Nato a Torino il 10 novembre 1902 da una famiglia della buona borghesia, studente di medicina (anno di laurea, il 1923), comincia a frequentare la clinica medica dell’università di Torino, dedicandosi allo studio delle malattie del fegato; tema poi approfondito in trasferte di perfezionamento a Parigi. Ma la sua vera passione riguarda la sfera pubblica; quasi un dovere, se si pensa alla parentela di Levi con l’esponente socialista Claudio Treves, fratello di sua madre. Ma ancora di più se si ricorda l’amicizia che lo legava a Piero Gobetti fin dal 1918, e la collaborazione alle sue riviste.
Quando, nell’agosto 1929 si costituisce Giustizia e Libertà, Carlo Levi ne fa parte. Poco più tardi assume, nel movimento, responsabilità organizzative. Il fascismo sconvolge la vita di quel gruppo. Già nel ’24 Gobetti aveva subito la prima di una serie di aggressioni, che provocheranno la sua morte nel febbraio del ’26. E per Levi inizia un lungo periodo di lotta clandestina, condotta sia in Italia che in Francia, dove apre un atelier e dove infittisce i contatti con gli esuli italiani, in particolare con i fratelli Rosselli.
Di solito, quando è in Italia, vive tra Torino e Alassio, dove i suoi genitori hanno una casa. Lì viene arrestato. E’ il 13 marzo del ’34. Due mesi circa di carcere. Nell’aprile del ’35 la polizia lo ferma di nuovo nella sua città. Trasferimento a Roma (due mesi a Regina Coeli) e condanna a tre anni di confino da scontarsi a Grassano, in Lucania. Era l’agosto del 1935. Veniva segregato in una comunità di contadini e di pastori nel profondo Sud: il tribunale speciale fascista aveva deciso, come già per Antonio Gramsci, di “rendere innocuo il suo cervello”.
Dopo qualche mese viene trasferito poco distante, ad Aliano. Il paese si trovava in cima ad una cresta di calanchi (canaloni di argilla scavata dal vento e dalla pioggia). Levi rimase ad Aliano diciotto mesi, fino al alla primavera del 1936. Un mattino di maggio, mentre passava dalla piazza, il postino gli comunica la buona notizia: era arrivato un telegramma da Matera che disponeva la liberazione dei confinati politici per festeggiare la presa di Addis Abeba.
L’indomani mattina i confinati politici lasciarono il paese, tranne Levi che si trattenne per una decina di giorni. I contadini cercarono in ogni modo di trattenerlo: “tu sei un buono cristiano, resta con noi…ti faranno podestà”. Era poi emigrato in Francia e, dopo la disfatta del 1940, per sfuggire ai tedeschi, aveva fatto ritorno in Italia stabilendosi a Firenze. Qui fu nuovamente tratto in arresto. Ed è a Firenze che nel ’43, appena liberato dal carcere all’indomani del 25 luglio, egli iniziò una nuova attività di uomo politico e di scrittore. E (come già detto), tra il dicembre 1943 e il luglio 1944, Carlo Levi scrisse “Cristo si è fermato a Eboli”.
Il libro non era soltanto il ricordo particolareggiato e commosso della sua esperienza di confinato politico, ma anche una drammatica testimonianza sui contadini meridionali e sulle loro disumane condizioni di vita, sulla fatica bestiale che li accomunava agli animali da soma, sullo stato di abbandono in cui da sempre erano lasciati. Il libro di Carlo Levi fu pubblicato nel 1945. Ebbe l’effetto dirompente della verità detta ad alta voce dopo anni di colpevole silenzio.
L’Italia stava riscoprendosi nella sua realtà e fra le ingiustizie, gli errori, le situazioni incancrenite c’era il Mezzogiorno. E c’erano i contadini di Carlo Levi. “Cristo si è fermato a Eboli” diventò subito la cattiva coscienza di un popolo, fu tradotto in tutto il mondo, restò uno dei punti di riferimento per avviare finalmente un discorso di democrazia, di giustizia, di dignità individuale nell’Italia del dopoguerra. I temi trattati nel libro ritorneranno in tutta la politica del Partito d’Azione, alimenteranno le battaglie di Rocco Scotellaro (il poeta contadino) contro il blocco agrario, risuoneranno durante l’occupazione delle terre.
Ma il libro non piacque agli abitanti di Aliano: si sentivano diffamati, dissero allora. E per molti anni rimase il silenzio tra lo scrittore e gli alianesi. Non vollero nemmeno riceverlo quando, per le elezioni politiche del 1948, si presentò in paese per tenere un comizio come candidato in Lucania per il Partito d’Azione. La pace fu fatta solo nell’ottobre 1974 quando, ormai scrittore e pittore famoso, il senatore della Sinistra Indipendente Carlo Levi fu ricevuto con tutti gli onori dal sindaco della giunta rossa, Maria Ippolito Santomassimo. Lo applaudirono con calore, si commossero, lo accompagnarono nella visita alle due case che aveva abitato. Insomma, fecero gran festa e perfino la sorella del podestà accettò il bacio della pace.
Quando Levi morì, il 4 gennaio 1975, a Roma, Aliano volle accoglierlo, rispettando anche le volontà dello scrittore, nel suo cimitero: un tumulo di terra, una pietra di marmo, il nome e due date. Nient’altro.
“Cristo è tornato a Eboli”, disse semplicemente il parroco.