Nel precedente contributo ci siamo occupati del fenomeno della violenza giovanile cercando di individuarne almeno in parte alcune cause di natura socio-economico-politico, ma ad ogni buon dire, non sono bastevoli. Solo se inquadrassimo il problema in macro-categorie e lo delimitassimo ad una sola manifestazione comportamentale o ad un gruppo sterile di pattern, ad esempio eccesso di rabbia, turpiloquio, ingiurie, risse, diverbi, scontri tra gruppi di pari o di generazioni eterogenee, assassini, induzioni al suicidio e tanto altro, mai e poi mai riusciremmo a coprirne tutto l’intero “mondo di appartenenza”; non sarebbe per il fatto ineludibile che, ahinoi, in ogni essere umano, a qualsiasi età, di qualsiasi etnia, di qualsiasi ceto sociale appartenga, alberghi sin dai primi vagiti, l’indefessa lotta tra Eros e Thanàtos, il Bene e il Male. Ed in questa eterna lotta, l’essere umano, a differenza di altre specie non umane, resta imbrigliato nell’assoluta malaugurata finalità di coltivare il peggio, il perfido e, quindi, il Male a discapito di un auspicabile, sotteso e profuso senso di Amore, di Bene. Fortunatamente, non indistintamente, per tutti è così.
La digressione appena accennata è di fondamentale importanza ai fini della disamina e dell’individuazione di altri fattori scatenanti che ne facilitano l’insorgenza, pur restando fermamente del parere che le azioni preventive e di insorgenza del fenomeno “violenza”, vadano affrontate nei luoghi deputati per i processi formativi, quali, scuola, società, famiglie e agenzie educative.
Un altro fattore incontrovertibile che negli ultimi tempi, sembri affacciarsi con prepotenza nell’annovero delle cause scatenanti di tutta una serie di episodi agghiaccianti di “morti annunciate” per estremi atti di violenza, risulta essere la distribuzione iniqua della popolazione negli spazi urbani.
È innegabile come la struttura dei centri urbani possa influenzare la diffusione della violenza in modi che riflettono sia la pianificazione urbanistica che le dinamiche sociali. Esso nei contesti periferici non può essere ridotto a una questione esclusivamente di ordine pubblico o criminalità. Gli episodi avvenuti recentemente al Corvetto, culminati con la morte tragica di Ramy Elgaml e le conseguenti proteste, richiedono un’analisi più ampia che tenga conto delle radici sociali, culturali ed economiche del disagio. Sebbene le misure repressive possano sembrare la risposta più immediata per garantire la sicurezza, è evidente che da sole non siano sufficienti a prevenire il ripetersi di simili episodi.
La progettazione urbana spesso riflette e perpetua le disuguaglianze sociali, concentrando la povertà e l’emarginazione in specifiche aree. Quartieri densamente popolati, con infrastrutture carenti, scuole di bassa qualità e pochi spazi pubblici, diventano luoghi in cui la violenza è più probabile e diffusiva. La segregazione spaziale può creare tensioni sociali, favorendo l’isolamento e riducendo le opportunità economiche, elementi che storicamente sono correlati all’aumento di comportamenti violenti.
Gli spazi urbani mal progettati, come vicoli bui, aree industriali abbandonate o parchi poco frequentati, possono diventare luoghi dove la violenza prospera. La mancanza di illuminazione, visibilità e presenza di cittadini riduce il controllo sociale informale, rendendo più facile per attività illegali o violente passare inosservate.
Criticità del sistema attuale
Uno dei problemi principali è la mancanza di politiche integrate capaci di agire simultaneamente su diversi fronti: istruzione, occupazione, integrazione sociale e rigenerazione urbana. Le periferie come il Corvetto soffrono di una cronica carenza di servizi pubblici e di spazi aggregativi sicuri per i giovani, in quanto alla loro nascita quale problema ha dovuto risolvere la strutturazione di questo luogo? O di luoghi simili a questo? È inutile nasconderci dietro un dito: l’amara verità resta sempre la più semplice e la meno facile da sopportare. Negli anni del boom economico, le periferie nascono per accogliere e “raccogliere” la manodopera artigianale proveniente da gran parte del Sud Italia e del resto del mondo, in cui l’evidente divario dovesse apparire “meno insopportabile” agli occhi dei ceti sociali medio-alti. Di fatto non è stato e non è così: in queste condizioni, è facile che i gruppi di ragazzi trovino nella violenza e nella ribellione una forma di espressione o di appartenenza. Inoltre, il rapporto conflittuale con le forze dell’ordine, evidenziato durante gli scontri, riflette una distanza profonda tra istituzioni e cittadinanza.
A livello istituzionale, spesso manca un coordinamento efficace tra i vari enti locali, le scuole e le associazioni territoriali. Questo lascia un vuoto operativo che, in contesti già fragili, si traduce in un aggravamento del senso di abbandono percepito dai residenti, soprattutto tra i più giovani.
Ma allora nascono spontanee le domande: “Se tutto questo non è percepito come un bisogno impellente perché ci possa essere un “cambiamento totale di rotta” cosa ne parliamo a fare? Perché dovremmo “arricchire” i nostri servizi informativi di notizie di tanta efferata malvagità? Forse perché il sensazionalismo di una truce e più beca morte possa riempire le sciacallate tasche di chi ne profonde e ne diffonde la notizia? Assolutamente nulla di tutto questo e di tant’altro.
La povertà spirituale dell’uomo, mai come in questi tempi, abbisogna di costanti ripensamenti e di conseguenziali azioni produttive, di fatto. Ed in questo la funzione ed il ruolo deontologico di chi ne detiene, a giusto titolo, la possibilità di divulgazione dei fatti, ne è chiamato a fare delle proposte non partigiane, ma oculate e favorevolmente destinate ad un rinnovamento dell’assetto sociale più equo e sostenibile.
Proposte di intervento
Esse, per contrastare efficacemente la spirale di violenza giovanile o meno, è necessario che siano adottate in un approccio multidimensionale, che includano: l’introduzione di programmi educativi nelle scuole per promuovere la cultura della non violenza e della legalità, mettendo al centro il dialogo e la gestione dei conflitti; il coinvolgimento di esperti di mediazione culturale per lavorare con giovani di diverse provenienze, riducendo tensioni legate a questioni etniche o di integrazione. Inoltre è più che mai essenziale: investire nella riqualificazione delle periferie, creando spazi pubblici sicuri e inclusivi dove i giovani possano incontrarsi e partecipare ad attività sportive, culturali o formative; promuovere progetti di co-working e iniziative imprenditoriali giovanili, per offrire prospettive occupazionali e ridurre il rischio di marginalità. Altri due fattori determinanti: coinvolgere attivamente la comunità locale nella definizione delle politiche territoriali, incentivando la collaborazione tra istituzioni, associazioni di volontariato e famiglie; creare reti di supporto per i giovani a rischio, attraverso tutoraggio, counseling e percorsi di formazione specifici; organizzare incontri periodici tra polizia, carabinieri e cittadini per migliorare la comunicazione e ridurre il clima di sfiducia reciproca; formare le forze dell’ordine sull’interazione con giovani e gruppi vulnerabili, adottando un approccio più orientato alla prevenzione che alla repressione.
La violenza giovanile, in particolare, e più in generale la violenza in senso lato, è un sintomo di problematiche complesse e interconnesse che richiedono risposte articolate e di lungo termine. L’episodio del Corvetto non deve essere archiviato come un fatto isolato, ma considerato come uno stimolo per ripensare il ruolo delle istituzioni e della società civile nella costruzione di una città più equa e inclusiva. Solo attraverso interventi sistemici, che affrontino le cause profonde del disagio, si potrà sperare di invertire la tendenza e offrire ai giovani prospettive di futuro lontane dalla violenza.