Lo studio della storia dell’arte è legato alla continua ricerca di documenti, di tracce archivistiche e di opere di difficile individuazione, spesso “nascoste” in chiese, in cappelle e palazzi gentilizi di centri “periferici” rispetto alle grandi città. Il famoso e controverso dibattito tra centro e periferia occupa un posto importante nel discorso sulle metodologie degli studi storico-artistici, ma bisogna tener presente che non sempre l’arte che si ritrova nelle cosiddette “periferie” è di minore importanza rispetto a quella dei grandi centri, delle botteghe artistiche presenti nelle grandi città.
Tra gli ultimi decenni del Seicento e i primi tre decenni circa del secolo successivo ci sono stati diversi artisti che hanno avuto un ruolo importante nella cultura artistica italiana, anche internazionale, ma che a torto nei manuali di storia dell’arte non compaiono o compaiono solo con nome e cognome e qualche dato su qualche opera, poi il silenzio. Eppure si tratta di artisti che nel tempo in cui vissero ebbero grande prestigio e importanza per i loro contemporanei, ma che la storiografia del nostro tempo per gran parte ha offuscato.
È il caso di Paolo de Matteis, il pittore cilentano che ebbe notevole successo in Italia e all’estero, con grande apprezzamento e fortuna «presso i letterati del tempo, in particolare lo Shaftesbury», come già rilevò lo storico dell’arte Ferdinando Bologna nel 1958, nella monografia dedicata a Francesco Solimena.
Successivamente al Bologna, fu Oreste Ferrari che nella monografia dedicata a Luca Giordano, all’interno della monumentale “Storia di Napoli”, nel 1970, fece menzione del de Matteis in rapporto all’individuazione di una vena illuministica già presente nella sua maniera artistica, oltre al suo classicismo pittorico, anche verso espressioni e tangenze stilistiche legate all’ambiente accademico romano e al Maratta in particolare, come poi è stato sottolineato da Vega De Martini, con una preferenza anche verso temi della mitologia classica attraverso la proposta felice di un linguaggio arcadico-rococò.
In questo senso, la pittura del maestro cilentano andava ben oltre il filone strettamente giordanesco, con esiti di «temperato classicismo» e già negli anni Novanta del Seicento si può intravvedere una vena coloristica pittorica rivolta verso una sottile preferenza “rocaille”, come ebbe a esprimersi Nicola Spinosa.
Di parere contrario a quello espresso da Spinosa è il professore Francesco Abbate il quale nega questa presunta e leggera aderenza alla pittura del Rococò da parte di de Matteis e ritiene che la tavolozza del pittore verso chiarori porcellanati e levigati di certi incarnati delle sue figure sarebbe in realtà il frutto di una ponderata scelta non solo cromatica, ma anche legata a una sorta di messa in scena formale molto attenta, realizzata «ora con leggerezza di accenti e ora con più sostenuta calibratura compositiva e formale».
Tutto questo sarebbe il frutto di precise scelte legate alla fusione della cultura visiva romana e napoletana di cui egli fu un valido esponente, soprattutto nelle opere con temi mitologico-classici, in collegamento con il pittore Luigi Garzi che aveva lavorato anche a Napoli, nella chiesa di Santa Caterina a Formiello. Sappiamo dalle fonti, e da quanto ha scritto il compianto e indimenticato storico dell’arte Mario Alberto Pavone in merito alla riscoperta storico-critica del de Matteis, che l’artista cilentano fu molto apprezzato dagli ordini religiosi. Ad esempio, nella Certosa napoletana di San Martino vi è un’opera di Paolo de Matteis, del 1699, che raffigura San Bruno che intercede presso la Vergine a favore dell’umanità sofferente dove è rilevabile l’influenza della maniera pittorica del Garzi in «netta contrapposizione al vigoroso luminismo del Solimena».
Va fortemente sottolineato che Paolo de Matteis soggiornò in Francia, a Parigi, dal 1702 al 1705. Il suo magistero pittorico ebbe effetti anche su alcuni pittori francesi, come ci ricorda sempre Mario Alberto Pavone. In particolare uno storico dell’arte francese, Arnauld Brejon de Lavargnée, si è interessato all’opera di de Matteis, all’epoca impegnato in opere di soggetto mitologico, ispirate alla letteratura di Ovidio, come, ad esempio, la «sequenza di scene con “Alfeo e Aretusa”[che] dovette culminare nell’esecuzione delle due tele relative ai Trionfi di Galatea e di Venere (a Montecarlo in collezione privata), la cui esecuzione in Francia appare indubitabile, data la particolare somiglianza del volto di Venere con quello di Mademoiselle Crozat, quale appare nel frontespizio del “Traité de Geographie» (Paris, Bibliothèque Nationale, Cabinet des Estampes) eseguito da Langlois su disegno del De Matteis», come sottolinea il professor Pavone.
De Matteis rientrò a Napoli nel 1705. Ma nel febbraio dello stesso anno, a Genova, nel soffitto della biblioteca dei padri Gesuiti realizzò un dipinto su tela raffigurante La Divina Sapienza illumina le Arti Liberali. Poi a Napoli, con il capovolgimento di dominazione politica, con gli austriaci dunque, de Matteis continuò ad essere un pittore di chiara fama. Ottenne diverse commissioni artistiche vicereali da parte del nuovo padrone politico e amministrativo del Mezzogiorno. Un dipinto per tutti segna questo periodo, L’Allegoria per il trionfo di Carlo VI d’Asburgo sui Turchi, opera del 1717 conservata a Opocno, Staatliches Schloss. E sempre più fitte divennero le commissioni di opere per gli ordini religiosi e per ricchi aristocratici del tempo.
In particolare va ricordato il dipinto raffigurante Ercole al bivio per Lord Shaftesbury, dipinto poi replicato dallo stesso pittore in tre versioni, oggi conservate a Leeds, a Monaco e a Oxford e che comprovano il sodalizio dell’artista con il filosofo inglese. Quest’ultimo considerò il pittore come un «esponente di spicco della pittura italiana contemporanea».
La fama del pittore dunque divenne internazionale e diverse sue opere sono state studiate da poco, altre ancora da studiare. Il bello della ricerca è anche nella capacità e nella fortuna di ritrovare opere che sono in grado, ancora oggi, di meravigliarci e di darci il senso della grandezza dell’arte.