L’ultima fatica letteraria di Antonio Franchini, Il fuoco che ti porti dentro, edito da Marsilio, finalista al Premio Campiello 2024, mi è stata suggerita da un’amica poeta.
Incuriosita dalla sua opinione, ho deciso di acquistare il romanzo, certa di affrontare una piacevole lettura e di essere catapultata in un lessico famigliare ben strutturato (l’autore è anche editor, tra i più quotati del settore).
Tutto ciò che ho pensato ha trovato corrispondenza. Il quid inaspettato è stato quel “guizzo elettrico” che ha acceso il mio interesse sin dall’incipit, sconcertante e diretto come un gancio ben assestato: «Benché da molti sia considerata una bella donna, mia madre puzza».
Una indiscutibile e discussa potenza questa introduzione, che mi ha fatto appassionare nell’immediatezza sia alla storia sia al personaggio di Angela, genitrice dello scrittore nonché protagonista principale di questo memoir.
Nel delineare le varie tappe del proprio vissuto in diversi piani temporali, con le città di Napoli e di Milano che fungono da sfondo, la penna di Franchini dà vita ad un’opera letteraria che potrebbe essere annoverata tranquillamente tra i testi teatrali di matrice eduardiana. È un libro in cui sono descritte e rappresentate tutte le maschere di una plausibile rappresentazione scenica del genio di De Filippo: il narratore con le due sorelle, il padre Eugenio – di ceto borghese, anima riservata e amante dei libri – figure minori quali parenti o conoscenti orbitanti intorno alla famiglia, e infine lei, Angela Izzo, beneventana di umili origini, lingua biforcuta e modi da sgherra che, con le sue coriacee convinzioni, possiede un’innata ed innegabile platealità.
Il ritratto di questa donna, di questa madre, da cui il figlio diciannovenne si allontana andando via di casa per non vederla più, vivendo lontano decenni per mantenere, a distanza, un rapporto formalmente decoroso – ma che il destino poi riunisce nella fase della maturità – lascia inizialmente disorientati, quasi turbati, ma è in tale stupore lo stimolo a sottolineare intere frasi e a divorare le pagine.
«La detesto da sempre, da quando la mia vita ha cominciato a staccarsi dalla sua e si è aperta sul mondo, perché ci ho messo poco a capire che il mondo giusto – quel luogo inesistente che i giovani sognano e alcuni adulti idealisti si impegnano a fargli credere che esista – faceva, diceva, pensava tutto ciò che mia madre non faceva, non diceva, non pensava».
Per descriverla non si usano mezzi termini, l’avversione per aver ricevuto «un’educazione a rovescio» è dichiarata lapalissianamente.
«È la sua concezione della vita che mi ha sempre fatto schifo. […] Non ha mai avuto una sola amica. Non ha mai sentito in nessun modo questa mancanza. Ha sempre creduto che gli amici ti invidiano. Rubano il tuo tempo, in fondo vogliono il tuo male. Il primo insegnamento che avrebbe voluto passarmi è: gli amici non ti servono.
Sostiene che l’amicizia tra donne non può esistere, tanto meno quella tra maschi e femmine, perché i maschi dalle femmine vogliono una cosa sola.
[…] tutti gli esseri femminili della mia famiglia materna hanno disprezzato l’amore prima di qualunque altro sentimento, la gentilezza più di qualunque altra virtù, le altre donne assai più di qualunque maschio».
Angela viene dipinta come una donna rancorosa, ferina e viscerale, carnalmente sensuale da giovane, friccicarella (come ama definirsi lei stessa), incline al disprezzo di tutto ciò che non rientra nei suoi principi esistenziali. Spietata, volubile, maligna, faziosa, la sua visione della vita è improntata all’utilitarismo in società e al conservatorismo in politica. Muta opinione solo se può procurarsi un vantaggio, anche a discapito di altre persone, prole compresa.
Cattive qualità che Franchini riesce a modellare, con cinica maestria, alternando un registro in lingua napoletana, ironico e comico, ad una prosa più lirica e intimistica, che non lascia indifferenti e che non sfocia mai in sterile vittimismo.
Questo efficace espediente sul piano narrativo rende il romanzo vivo e profondo, unitamente a quel punto interrotto di formazione, di vuoto, che Angela chiama «rapporto di amore-odio», quell’anomalia sentimentale a cui riconduce «quella stranezza del comportamento, ogni fenomeno affettivo che non è in grado di spiegarsi».
Quest’orfana di padre è totalmente estranea alla «mater dulcissima» di Quasimodo, incarna il paradosso di tutto ciò che può diventare «subito la bocca di un vulcano che erutta guai», è una lazzarella che i mali di un’intera esistenza non riescono ad addomesticare fino in fondo; ciò nonostante, è il suo essere teatralmente se stessa a stregare noi lettori, a spingerci ad accettare e perdonare i suoi eccessi, le sue imprecazioni, la sua estenuante ricerca di un pretesto per azzannare chiunque capiti sul suo cammino.
Un testo che scarnifica il rapporto che intercorre fra una madre ed un figlio, che restituisce alla letteratura uno dei suoi insegnamenti più intrinseci, ossia quello di renderci “più abili nel capire i nostri simili, le loro azioni e i loro atteggiamenti, così come le dinamiche delle relazioni che a loro ci legano; più pronti a intendere il senso e il peso delle parole, nostre e altrui”.
Un monito che Antonio Franchini ci restituisce con lucida consapevolezza, grazie ad una mappatura emotiva, non edulcorata, della sua geografia privata.
«Sarebbe scontato dedurre da quanto ne ho scritto finora che il mio interesse per Angela abbia tutte le caratteristiche della ferita da medicare, e trattandosi di mia madre, sarebbe altrettanto ovvio dedurne implicazioni psicoanalitiche pesanti, ma per poco che sia lecito ad un autore intervenire a proposito dell’ermeneutica di se stesso, sarebbe un’interpretazione sbagliata o eccessiva.
Per me non è stata una scrittura liberatoria, non ho cercato nessuna resa dei conti postuma: non è leale battersi coi morti, si lotta contro i vivi, e noi da vivi ci siamo battuti a lungo.
Una cosa però l’ho fatta, ho invitato i lettori a conoscerla, come facevo con gli amici che invitavo a cena per fargli vivere un’esperienza estrema. […] Scrivendo la sua storia ho reso onore al suo desiderio di recitare una parte anticonformista e scorretta. Ad Angela non è mai importato minimamente cosa si potesse scrivere di lei. Per lei la cosa che contava era che lo facesse il figlio e che il figlio fosse considerato uno scrittore. Basta.
Che il figlio fosse considerato scrittore scrivendo di lei le era sufficiente per inorgoglirla. E se lo avesse fatto dicendone male, questo non la toccava per nulla.
Ho capito che questa era la sua forma d’amore. Una forma sbagliata, ma temo che tutti gli amori siano in qualche modo sbagliati.
Uno solo è il fine dell’essere umano […] vivere, fino all’ultimo, finché si può, a qualsiasi prezzo».