«La poesia non è meno misteriosa degli altri elementi dell’universo. Questo o quel verso fortunato non può insuperbirci, perché è dono del Caso o dello Spirito; solo gli errori sono nostri. Spero il lettore scopra nelle mie pagine qualcosa che possa meritare la sua memoria; in questo mondo la bellezza è comune».
È quanto annota lo scrittore argentino Jorge Luis Borges nella chiusa del Prologo all’opera Elogio dell’ombra, pubblicata per la prima volta nel 1969, il suo quinto libro di versi (il poeta ama definirlo tale, pur essendo la silloge un prosimetro).
«Agli specchi, ai labirinti e alle spade che prevede il mio rassegnato lettore si sono aggiunti due temi: la vecchiaia e l’etica». Argomenti che costituiscono l’ossatura del testo, plasmati dal narratore con toni inediti e suggestivi.
L’elemento biografico che caratterizza la raccolta poetica e che ci aiuta a comprenderne meglio il titolo è, innegabilmente, la cecità. L’autore, tuttavia, non affronta la graduale perdita del senso della vista come un trauma, bensì come il risveglio di altre possibilità. In tal senso, l’influenza del pensiero junghiano è evidente, laddove lo psichiatra e psicanalista svizzero sostiene che “lavorare sulla propria ombra apre alla trasformazione psichica”. Di riflesso, Jorge scrive:
Democrito di Abdera si strappò gli occhi per pensare;
il tempo è stato il mio Democrito.
Questa penombra è lenta e non fa male;
scorre per un mite pendio
e somiglia all’eterno.
Il ritorno alla poesia, in effetti, coincide con l’età adulta
La vecchiaia (è questo il nome che gli altri gli danno)
può essere per noi il tempo più felice
e con l’oscuramento totale dei profili delle cose, dei lineamenti amati, di un quotidiano già sbiadito che muta
Gli amici miei non hanno volto,
le donne son quello che furono in anni lontani,
i cantoni sono gli stessi ed altri,
non hanno lettere i fogli dei libri.
Dovrebbe impaurirmi tutto questo
e invece è una dolcezza, un ritornare.
In questo riaffacciarsi alla rima, Borges avverte la necessità di riportare su carta ciò che per il lettore si traduce in emozione, di cadenzare con le parole della poesia il ritmo del tempo, altro protagonista dei suoi componimenti.
Il fiume mi rapisce, io sono il fiume.
Di labile materia fui costruito, di misterioso tempo.
È in me forse la fonte.
Forse dalla mia ombra
nascono i giorni, fatali e illusori.
Il famoso letterato ci spinge a riflettere sui momenti che scorrono nella vita, come un fiume. È semplice realtà il fatto che il Tempo faccia necessariamente il suo corso, non possiamo arrestarlo, solo prenderlo per mano. È il coraggio di affrontare la propria caducità, la pacatezza della senescenza.
Un volume che conferma, in Borges, l’esistenza di due mondi paralleli, quello “di una poesia privata, con riferimenti al vivere d’ogni giorno e ai suoi paesaggi fisici e morali, all’intimo, alle immagini del cuore”,
Son mutate le forme del mio sogno;
ora sono le oblique case rosse,
il delicato bronzo delle foglie,
il casto inverno, il pietoso legno.
Come nel settimo giorno, la terra
è buona. Nei crepuscoli resiste,
e non un quasi, un che di ardito e triste,
un suono antico di Bibbia e di guerra.
Presto (dicono) giungerà la neve
e l’America mi aspetta a ogni cantone,
ma io sento nella sera che declina
lento il presente, l’ieri troppo breve.
Buenos Aires, non cesso di vagare
per le tue vie, senz’ora e senza meta.
“e quello di una poesia dell’intelligenza, gremita di riferimenti culturali, e che si pone le grandi domande dell’esistenza.”
Mai ci sarà una porta. Tu sei dentro
e la fortezza è pari all’universo
dove non è diritto né rovescio
né muro esterno né segreto centro.
Non sperare che l’aspro tuo cammino
che ciecamente si biforca in due,
che ciecamente si biforca in due,
abbia fine. È di ferro il tuo destino,
così il giudice. Non attendere l’urto
del toro umano la cui strana forma
plurima colma d’orrore il groviglio
dell’infinita pietra che s’intreccia.
Non esiste. Non aspettarti nulla.
Neanche nel nero annottare la fiera.
Qual è il vero Borges? Impossibile definirlo nelle sue contraddizioni. Come egli stesso afferma,
Posso infine scordare. Giungo al centro,
alla mia chiave, all’algebra,
al mio specchio.
Presto saprò chi sono.
Non è fortuita la coincidenza che il poeta da lui più amato, in gioventù, sia stato Walt Whitman: «Mi contraddico? Sono vasto, contengo moltitudini». Le medesime che hanno contribuito, nell’arco di un’intera esistenza, alla delineazione di uno specifico ritratto, quello dell’uomo Borges come personaggio di un racconto di Borges.
Sullo sfondo, la sua città natale, la Babele più amata, Buenos Aires.
Come nei sogni,
nessuno dietro il viso che ci guarda.
Siamo il nostro ricordo,
siamo museo immaginario di mutevoli forme,
mucchio di specchi rotti.
***
[ I testi poetici sono tratti da Elogio dell’ombra (Einaudi, 1998), nuova edizione a cura di Glauco Felici. Versione con testo a fronte di Francesco Tentori Montalto ]