Beetlejuice Beetlejuice, sequel del cult del 1988, è probabilmente il primo film di Tim Burton, da un po’ di tempo a questa parte, a esser degno del nome del suo regista
Metter mano al sequel di un film come Beetlejuice, vero e proprio film-manifesto di Tim Burton, è già un compito rischioso (a voler usare un eufemismo): l’intento diventa addirittura folle se pensiamo ai trentasei anni trascorsi dal primo capitolo, tra attori inevitabilmente invecchiati e un regista che, a dirla tutta, sembrava non riuscire più a convincere dai tempi della doppietta La Sposa Cadavere/La Fabbrica di Cioccolato (era il lontano 2005). Siamo dunque di fronte al definitivo suicidio artistico del regista di Edward Mani di Forbice o, finalmente, alla sua rinascita?
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Andiamo con ordine: la trama di Beetlejuice 2 (o, per meglio dire, di Beetlejuice Beetlejuice, titolo ufficiale del film) torna a seguire le vicende di Lydia (Winona Ryder), protagonista del primo capitolo ormai cresciuta e diventata non solo madre di Astrid (Jenna Ortega), ma anche conduttrice di un seguitissimo programma televisivo durante il quale la nostra comunica con i defunti. Il rapporto tra madre e figlia sembra però precipitato dopo la morte di Richard (Santiago Cabrera), marito di Lydia e padre di Astrid, e le cose non migliorano di certo quando l’intera famiglia si trova a tornare nella casa dove ebbero luogo le vicende del primo film per il funerale di Charles, il padre di Lydia. Qui, infatti, il nostro Beetlejuice (Michael Keaton), l’inquietante e politicamente scorrettissimo spirito che dà il titolo al film, è sempre in agguato e pronto a sfruttare ogni occasione per tentare di raggiungere il suo obbiettivo: costringere Lydia a sposarlo!
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Diciamolo senza temere di cadere in errore: mai, dai primi anni ’00 ad oggi, Tim Burton aveva dato l’impressione di aver ritrovato se stesso con tale convinzione. In Beetlejuice Beetlejuice ritroviamo tutto ciò che ha fatto innamorare più di una generazione del regista di Big Fish: l’umorismo macabro, il senso del grottesco, l’estetica gotica e inconfondibile dei personaggi e dei luoghi, talvolta addirittura lo splatter (indimenticabile, in tal senso, il pancione di Astrid che esplode in un tripudio di sangue per dar vita al piccolo Beetlejuice in una delle sequenze finali), tutto sembra urlare a gran voce che stavolta il buon Tim si sia davvero divertito sul set com’era solito fare ai suoi tempi d’oro.
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Il genio di Burton è corroborato anche stavolta da effetti speciali squisitamente artigianali (la CGI è praticamente assente per tutto il film) e perfettamente rispettosi della poetica visiva burtoniana, ma anche da prestazioni attoriali di assoluto livello su cui spicca, ovviamente, un Michael Keaton che non sembra invecchiato di un giorno e che, quando indossa i panni del bio-esorcista, pare esser stato ibernato nel 1988 (va però menzionata anche la splendida intesa tra Winona Ryder e Jenna Ortega, così come un Willem Dafoe divertentissimo e una Monica Bellucci che, per quanto muta per gran parte del film e non godendo di un altissimo minutaggio, riesce a rubare la scena ad ogni sua comparsa). Idem dicasi delle musiche: i richiami all’iconica Day-O di Harry Belafonte, brano simbolo del primo capitolo, sono azzeccatissimi, ma una standing ovation la merita il meraviglioso utilizzo di Tragedy dei Bee Gees durante la sequenza della ricomposizione del corpo di Delores (la già citata Monica Bellucci).
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Beetlejuice Beetlejuice è un film che, pur nel suo non essere perfetto, ci ricorda perché abbiamo sempre amato Tim Burton e perché in tanti non abbiano perdonato al regista prove sottotono come Dumbo (che Burton stesso ha, in parte, rinnegato) o Miss Peregrine, così come altre che hanno caratterizzato questi ultimi anni in cui il nostro sembrava aver perso quella scintilla che lo contraddistingueva. Che si tratti di una rinascita o di un canto del cigno, insomma, il nostro giudizio non può che essere espresso con un sentito grido di gioia: bentornato, Tim!