Avete presente quanto è raro il vitigno Catalanesca? Intanto ci sarebbe da dire che la sua area di diffusione in Campania è molto specifica in quanto limitata alla provincia di Napoli e, più precisamente, nei comuni di Somma Vesuviana, ove si trova il suo epicentro, Sant’Anastasia, Ottaviano ed in altri comuni vesuviani come ad esempio Terzigno.
In effetti le fonti storiche ci dicono sia stato importato in Campania per la prima volta attorno al 1450 da Alfonso I d’Aragona, re delle Due Sicilie, direttamente dalla Catalogna verso il 1450, ecco perché è anche detto uva Catalana, e fu impiantato proprio sulle pendici del Monte Somma tra Somma Vesuviana e Terzigno.
Questa cultivar di Vitis Vinifera è sempre stata presente in molti testi di ampelografia a partire dal ‘500 e, per quanto fosse stata erroneamente classificata come uva da tavola e non ne fosse consentita la vinificazione, i contadini vesuviani la tramutavano comunque in ottimo vino per le necessità familiari ed aumentare il bilancio calorico dei pasti, dopo le lunghe ed estenuanti giornate di lavoro nei campi. Malgrado le prescrizioni va precisato che tutti i maggiori studiosi di viticoltura del passato concordavano all’unanimità che il Catalanesca avesse tutte le carte in regola per essere vinificato e, a maggior ragione… viva l’anarchia produttiva e la saggezza contadina!
Quasi finito nel dimenticatoio per il poco interesse dal punto di vista enologico, o più certamente per pregiudizio, questo vitigno, è stato iscritto ufficialmente nel Registro Nazionale delle Varietà di Vite soltanto nel 2007 ed è sopravvissuto fino ai giorni nostri soltanto grazie alla caparbietà di quei pochi vignaioli che hanno voluto tenere caparbiamente in piedi una tradizione tramandata da secoli.
Dunque è a partire da queste considerazioni che si ritiene, a ragion veduta, il Catalanesca essere raro, per non parlare del fatto che la superficie in cui si alleva non arriva a superare i 54 ettari complessivi. Provate a immaginare poi di bere un vino fatto con il Catalanesca vendemmiato nel 2017!
È stato dunque un onore e un privilegio poter assaggiare questo vino, soprattutto se consideriamo la serietà di una famiglia dedita alla viticoltura da più di un secolo e da ben quattro generazioni, come nel caso della famiglia Nocerino. Infatti fu Vincenzo Nocerino, classe del 1898, detto “Scatena” per la sua caparbietà ed intraprendenza, ad avviare l’attività di vignaiolo nei primi anni del ‘900 e che ha portato alla fondazione di Tenuta Augustea, storica cantina sommese. Alla guida di questa azienda c’è oggi Marco Vincenzo Nocerino, fiero erede della tradizione familiare che lo lega appassionatamente al territorio vesuviano, aiutato in vigna da suo padre Angelo e in cantina da Antonio Felaco, giovane e competente enologo che potrebbe costituire l’avanguardia della Campania del vino nel prossimo futuro.
Provate ad immaginare una realtà enologica importante come Tenuta Augustea, la quale conta su 10 ettari vitati di proprietà, quasi tutti a piede franco, avente per sfondo un paesaggio circondato da boschi di latifoglie, betulle e castagni, con frutteti di albicocco ed i magnifici terrazzamenti in cui dimorano le vigne, le cui vendemmie possono considerarsi eroiche, visti i declivi del complesso vulcanico del Monte Somma e Vesuvio ove si trova la loro vigna, detta Madonna delle Gavete, la più alta del circondario.
È proprio in questo scenario che nasce lil Catalanesca di Tenuta Augustea.
Il Catalunae Catalanesca del Monte Somma Igt 2017 di Tenuta Augustea è un vino che rappresenta una rarità nella rarità, oltre che la dimostrazione tangibile che non tutto il vino bianco deve essere bevuto entro un triennio dalla produzione.
All’esame visivo il Catalunae 2017 presentava una veste di aurea eleganza, molto attraente e che sembrava vivere di una sua propria luce, con evidenti tracce di consistenza grazie agli archi e alle lacrime che si formavano ai bordi del calice. All’esame olfattivo questo straordinario esempio di Catalanesca da lungo affinamento richiamava un evidente sentore di idrocarburo, dopo un momentaneo odore che ricordava lo iodio marino; in seguito non sono mancate le note fruttate e disidratate di kiwi giallo, albicocca “pellecchiella” del Vesuvio e nespola, con sentori boisé che, allentando la presa, hanno virato verso le noci tostate, poi il ricordo della scatola di sigaro e, aprendosi e aprendosi ancora dopo anni di apnea in bottiglia, all’alga kombu, al burro di nocciole e quindi al pan brioche.
Durante l’esame gusto-olfattivo ecco un’inondazione di sensazioni che ne bilanciavano le morbidezze e le durezze del vino in un raro, elegantissimo equilibrio, in cui una lievissima astringenza cedeva testé spazio ad una succosa freschezza, al kokumi effect, relegandone spessore e tocco umami, oltre che sapidità; in retro-olfattiva il ritorno di note fruttate e burrose andava a deliziare il sorso, un vero e proprio velluto liquido, svelando riconoscimenti di tamarindo e miele di corbezzolo, per un finale di lunghissima e intensa persistenza aromatica.
Il Catalunae 2017, che nelle annate più recenti prende il nome di Cataluna, è stato una straordinaria scoperta per quanto non abbia avuto per niente affinamento in botte e, oltretutto, ha saputo esprimere il grande potenziale del Catalanesca, un potenziale di affinamento e longevità che ha arricchito ogni singolo sorso con raffinata piacevolezza di beva, ben contestualizzata al terroir e al varietale. Materico, per quanto opulento e fine, questo vino si abbinerebbe perfettamente alle ostriche Boudeuse di David Hervè, prodotte tra Nantes e Bordeaux, a patto che le si mangi come se non vi fosse un domani.