La maggior parte di noi proviene da una tradizione contadina.
La terra la conosciamo tutti … anche grazie ai nostri nonni, genitori, parenti ed amici.
Quindi, sappiamo bene il duro lavoro che c’è dietro!
Dietro ogni sigla, invece, ci sono le proteste di una categoria allo stremo. Da Nord a Sud scendono in strada contro i guadagni ridotti all’osso, i costi elevati del gasolio, la pesante tassazione, le politiche dell’Ue con misure troppo ambientaliste e le possibili aperture a carne coltivata e farine di insetti.
“Stop alle rigide regole europee del Green Deal e immediata abolizione dei vincoli che impediscono di coltivare terreni”, sentiamo gridare in questi giorni dagli agricoltori.
“Basta con l’ingresso in Italia a cibi da Paesi che non rispettano le stesse regole igienico-sanitarie ed etiche”, affermano altri.
Quella, per esempio, sull’indicazione obbligatoria della provenienza per il miele, per metterlo al riparo dalle frodi, è una vecchia battaglia dei coltivatori italiani. Adesso, l’origine del prodotto dovrà essere indicata necessariamente in etichetta (ad oggi c’è scritto solo se Ue o extra Ue): in caso di miscela, ciascun Paese sarà elencato in ordine decrescente in base al peso.
Un’altra richiesta proveniente dal settore agricolo è la riduzione delle incombenze burocratiche che impegnano i contadini a stare più tempo dinanzi ai pc piuttosto che a badare a piante e animali, cioè dedicarsi alla produzione!
Il fatturato aggregato nel 2023 è stato di 600 miliardi di euro. I Lavoratori del settore sono 4.000.000. Le Aziende agricole sono 740.000; le Industrie alimentari 70.000; le Aziende della ristorazione 330.000; i Punti vendita al dettaglio 230.000. L’Export italiano vale 64 miliardi di euro!
Gli organizzatori delle proteste qui in Italia, minacciano di portare la manifestazione a Roma. La richiesta principale? Loro chiedono la revisione completa delle politiche agricole europee per mettere al bando ogni tipo di assistenzialismo, vogliono poter lavorare la terra!
Pretendono che venga stabilito un prezzo minimo dei prodotti agricoli, che tenga conto delle spese che si sostengono per ciascuna coltura o produzione e anche un margine di guadagno.
A tal fine, è necessario il mantenimento anche dopo il 2026 del sistema che tiene calmierati i costi del gasolio agricolo.
Oggi la maggior parte dei frutti del lavoro è sottopagato, i ricavi sono abbondantemente inferiori ai costi di produzione e questo, purtroppo, perdura da decenni.
Per non parlare della disparità del costo del lavoro: un’ora di un bracciante italiano vale una decina di euro, almeno 15 uno specializzato. Ma neanche 5 euro nei Paesi dell’est e sono ancora più ampie le differenze con il mercato del lavoro nel terzo mondo, da dove arrivano ingenti quantitativi di derrate alimentari.
La grande distribuzione riconosce un prezzo ai produttori che non è sufficiente neanche a coprire le spese base: Per un fascio di lattuga si ottengono al massimo 10 centesimi di euro; per un chilo di pomodori invece si ricavano non più di 30 centesimi. Da un chilo di mele 28 centesimi. La carne di pollo vale 25 centesimi e così via.
Ma quanto costa al consumatore finale la carne, il latte e la verdura nei supermercati?
Un’altra questione sollevata dagli agricoltori sono gli accordi di libero scambio come quello ancora in ballo con il blocco Mercosur (Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay), intese che permetteranno a prodotti di basso costo, dalla carne al riso, di arrivare in abbondanza sul mercato europeo.
L’Unione Europea, a seguito delle proteste avvenute nei giorni scorsi a Bruxelles, dinanzi al parlamento europeo, corre ai ripari e opta per il mantenimento anche quest’anno della deroga all’obbligo di tenere a riposo il 4% delle terre coltivabili (un regime di favore che era stato attivato già tra 2022 e 2023). Assicura, inoltre, più tutele per i produttori dal rischio concorrenza a basso prezzo rappresentata dalle importazioni agricole in arrivo dall’Ucraina.
Le piazze del malcontento non vogliono deroghe a tempo, ma lo stralcio tout court dell’obbligo di lasciare incolto il 4% dei terreni.
L’Italia non è più da almeno un secolo un Paese agricolo. Già prima della Seconda Guerra mondiale l’incidenza del settore primario sulla ricchezza complessiva prodotta in Italia era inferiore a quella dell’industria anche se il numero dei lavoratori dei campi, spinto soprattutto dal Sud, aveva ancora il primato assoluto tra gli occupati.
I limiti dell’agricoltura italiana sono tra tutti il “nanismo” delle aziende. Un tema che continuiamo a sottovalutare è la dimensione ridotta delle aziende italiane e quindi la mancanza di economie di scala. Con 11 ettari di dimensione media, l’Italia è tra i dieci paesi europei con aziende piĂą piccole della media dell’Unione (16 ettari). I nostri principali concorrenti agricoli – Spagna, Francia, Germania – vantano tenute agricole piĂą ampie. Il confronto negativo con l’estero pesa particolarmente nel settore della carne, del latte e del grano.
I nostri agricoltori sono troppo individualisti, specie nel Mezzogiorno. Solo unendo le forze si potranno migliorare anche le performance legate all’internazionalizzazione e all’esportazione.
L’unione fa la forza anche nel reperire le risorse necessarie agli investimenti produttivi: Tra fondi italiani ed europei, ci sono circa 50 miliardi nei prossimi anni, che si uniscono a politiche appena varate come il maggiore accesso al credito per comprare i trattori.
Per le scelte discutibili di Bruxelles, la protesta cresce e si sviluppa a macchia di leopardo anche in Italia: in Puglia i contadini che si sono radunati tra Lecce e Gallipoli lamentano di essere stati abbandonati dalle istituzioni, in particolare a seguito della devastazione causata dalla Xylella; nel Viterbese forte è stata la protesta per l’aumento dell’Irpef sulle rendite catastali dei terreni; in Val d’Aosta il sospetto degli agricoltori è che l’espropriazione di terreni agricoli per l’installazione di pannelli solari favorisca solo le multinazionali.
La protesta approda anche a Benevento, dove decine e decine di trattori provenienti da ogni angolo della provincia si sono concentrati alla rotonda dei Pentri per poi incolonnarsi e percorrere le principali vie del capoluogo.
Poco più di un anno fa, Dublino aveva deciso di scrivere sulle bottiglie che il vino “nuoce grave mente alla salute”, notificando l’intenzione alla Commissione europea. Ben 13 capitali, tra cui Roma, contestarono la mossa irlandese.
Non dimentichiamoci mai che nel Sannio l’economia agroalimentare si basa sulle produzioni della Falanghina e dell’Aglianico. Così come in Irpinia sul Fiano di Avellino, il Taurasi e il Greco di Tufo.
L’Agricoltura è messa in ginocchio anche per i cambiamenti climatici, che rendono sempre più fragili le nostre colture e misero il rendimento dei campi… anno dopo anno!
Come se non bastasse, poi, le recenti difficoltà alla navigazione provocate dagli attacchi degli Houthi dello Yemen contro le navi nel Mar Rosso rischiano di ostacolare anche le importazioni dall’Asia di fertilizzanti, strumento fondamentale del lavoro nelle campagne. Aumenti di oltre il 15% da inizio gennaio riguardano per esempio l’urea, un derivato del gas utilizzato tanto nell’industria agroalimentare che in quella del legno-arredo, per la sua produzione di collanti. La crisi nel Mar Rosso mette in allarme anche il comparto delle conserve rosse, di cui l’Italia è il terzo trasformatore mondiale, da sempre fortemente vocato alle esportazioni. Molti tra i principali mercati di riferimento si trovano, infatti, in Asia e Oceania.