Non ci sono molte critiche da muovere a Oppenheimer, probabilmente una delle più valide espressioni del cinema nolaniano: il film con Cillian Muprhy nel ruolo del celebre scienziato, però, non riesce a smarcarsi da uno storico problema che affligge la filmografia del regista di Inception e Interstellar.
La scialba caratterizzazione dei personaggi femminili presenti in quello che si preannuncia come uno dei più credibili candidati ai prossimi Oscar non può, infatti, non saltare all’occhio: pensiamo a Kitty Puening (Emily Blunt), prototipo di quella donna votata alla sopportazione delle continue infedeltà del marito e dei fantasmi di quest’ultimo che non deve rinunciare, però, a porsi come pilastro al quale trovare appiglio quando il gioco si fa duro (la scena della testimonianza di Robert prima e Kitty poi è in tal senso emblematica), proprio come vuole quello stereotipo di donna forte figlio, non a caso, di una forma mentis innegabilmente maschile e che non ritiene quindi necessario raccontare i suoi meriti di natura extra-coniugale, ad esempio gli studi condotti proprio a Los Alamos sugli effetti delle radiazioni sull’essere umano; stesso dicasi di Jean Tatlock (Florence Pugh), donna tormentata e brillante la cui intelligenza non traspare però che da un paio di battute e da un capriccio sessuale di natura culturale/intellettuale.
In Oppenheimer non v’è quindi traccia delle menti femminili che contribuirono al Progetto Manhattan: i nomi ignorati dal film sono quelli di scienziate come Maria Goeppert Mayer (premio Nobel per la fisica), Chien-shiung Wu, Naomi Livesay, Leona Woods, cervelli che poco o nulla avevano da invidiare a quelli di colleghi come Enrico Fermi, Richard Feynman o Edward Teller, eppure banalmente sintetizzati in un paio di figure femminili prive della benché minima caratterizzazione e il cui stesso ruolo nell’economia di Los Alamos e nello sviluppo della bomba atomica resta tutto sommato ignaro allo spettatore, che difficilmente riesce, a queste condizioni, a farsi un’idea del contributo dato dalle donne di cui sopra a un simile progetto in un’epoca in cui, è bene ribadirlo, le pari opportunità erano ancora ben lontane dall’essere anche solo un miraggio.
Si tratta, come già accennato in apertura, di una falla storica nel modo di fare cinema di Christopher Nolan: per averne la prova basta risalire a ritroso il fiume della sua filmografia, passando in rassegna le evanescenti caratterizzazioni di personaggi come Ariadne e Mal (Inception) o Rachel Dawes (Il Cavaliere Oscuro), quella praticamente inesistente della Kat di Tenet o quelle drammaticamente illusorie di Muprhy e Amelia (Interstellar), la prima capace di raggiungere i propri traguardi solo grazie a (e in funzione di) suo padre, la seconda intestarditasi a vagare per le galassie più nella speranza di ritrovare il suo grande amore che in quella di imbattersi effettivamente nella soluzione alla sempre più probabile estinzione dell’umanità.
Oppenheimer, in conclusione, resta un grande film, capace di sfruttare al meglio un tema affascinante e di riaprire un dibattito quantomai attuale sul disarmo nucleare: sarà davvero una bella notizia, però, quando il buon Nolan riuscirà a stupirci anche per mano dei suoi personaggi femminili.