Il tempo della fornace è scandito dal ripetersi di gesti sempre uguali. Blocchi di creta vengono pressati e sagomati in forme quadrate di legno. Le forme ottenute sono impilate e coperte con sacchi, per non farle seccare eccessivamente.
La rifilatura avviene su uno scanno di legno. Si sovrappone uno squadro e si taglia con gesto deciso e rapido della mannara di fabbricazione gitana. I ritagli di argilla (tagliatura) cadono nella carriola, antistante lo scanno, e saranno in parte utilizzati quali distanziatori nel caricamento della fornace.
Comincia il lungo e delicato procedimento della essicazione: prima si sovrappongono, a quattro a quattro, a mazzo aperto, le ultime della pila, protette da un mattone cotto, per non farle storcere troppo. Successivamente sono disposte a libretto, due a due, e, prima della infornata, vengono messe al sole a spina di pesce o a palombella. Si è finalmente pronti a caricare il forno. Occorrono quattro giorni di lavoro per un forno che, se cuoce solo mattonelle formato cm. 20×20, arriva a contenere 16.000 riggiole.
La cottura dura 36 ore. Importante ricordare che la fornace è stata per tre giorni preriscaldata, oggi con l’ausilio del gas il raffreddamento dura quattro giorni. Le mattonelle infornate sono disposte a croce – i così detti quarti – per fare il fuoco, con gli spigoli accavallati. Quando le mattonelle non devono essere rifilate, per impedirne la rottura, si inseriscono, tra una fila e l’altra, strisce di argilla battuta. Nel caso di mattonelle che andranno squadrate si usa la paglia. Lungo le pareti del forno, per farvi circolare le fiamme, si mettono spezzoni di mattoni cotti. Tra le mattonelle che formano i cosidetti quarti, ossia le file del caricamento, si mettono zeppe di argilla seccata.
Prima i forni venivano costruiti col tufo grigio, proveniente da Fuorni (quartiere di Salerno), che ha la proprietà di trattenere il calore evitando la dilatazione esterna. Le bocche di caricamento sono due, una per piano. I tiraggi sono sei: tre al centro della lamia e tre su ogni dosso di scarico. Una volta caricata, si chiudono le porte con dei mattoni; i buchi vengono sigillati con argilla cruda malleabile, lasciando uno spioncino con la vista in tufo grigio.
Il fuoco è apparentemente libero di irrompere con la sua energia vitale e nel contempo distruttiva, In realtà è l’uomo che lo imbottiglia all’interno della fornace, che lo guida, per piegarlo al proprio bisogno. Ogni infornata è frutto non di collaborazione spontanea, ma di paziente lavoro sul filo di una scommessa che si rinnova ogni volta.
Migliaia di fascine vengono raccolte per essere immolate. Il fuoco avvampa nel fosso con lo scoppiettio ed il canto della legna; un profumo di sottobosco, di alloro bruciato, si espande a tratti, ineguale ed improvviso. ’ l’incenso del rito perpetuato sotto l’immagine di Sant’Antuono, al quale si offre un lume da ardere per tutta la durata della cottura. Alla sfida assiste tutta la famiglia. Il fornaciaio non si concede pausa; gli occhi vigili, lucidi scrutano il colore ed il suono della fiamma. Quando cala di tono e scurisce va alimentata con nuove fascine.
Dagli spioncini fuoriescono fumate nere: è segno che la condizione dell’argilla sta cambiando. Man mano che cuoce è il trapasso dal grigio della materia plasmata alle diverse sfumature dell’argilla cotta, dorata dal fuoco. La fatica è conclusa. Le riggiole sono scalpellate dallo squadratore. Vengono fatte cantare: il suono cupo è segno di una cottura difettosa. Ma nulla viene scartato o buttato.
Nella filosofia di vita dei pratici, anche l’errore ha una possibilità di riscatto. Scalpellate, assumono altre forme, altre dimensioni. Imballate e caricate sui camions si disperderanno nel mondo; ma le loro radici rimangono a Rufoli, ancorate ad un rito che si ripete, sempre uguale eppure sempre diverso, sul filo sottile di una continuità che affonda le sue radici nella scoperta straordinaria del fuoco e nella capacità dello uomo a gestire le forze della natura.