Tra le vite dei santi, quella di Francesco di Paola si distingue per l’eccezionale ascendente che condusse l’umile fondatore dell’Ordine dei Minimi al cospetto dei massimi esponenti del mondo politico quattrocentesco. E’ sicuramente il santo più amato da noi meridionali, amato soprattutto dalla gente di mare che l’ha eletto a suo protettore.
Qualche storico ultramoderno in vena di anacronismo lo considera addirittura un precursore del socialismo perché difese i poveracci contro i baroni, gli sfruttati contro gli sfruttatori. Qualcun altro l’ha definito il primo meridionalista della storia, per il suo forte impegno a favore della Calabria povera e squallida, dove Cristo non era arrivato e l’ingiustizia regnava sovrana con la dinastia aragonese.
Per me, vecchio cattolico poco osservante (e talvolta infelicemente dubbioso) San Francesco, al di là delle credenze religiose, è figura storica vigorosa e complessa. Ogni terra ha i suoi santi, con le sue pietre e le sue facce, il suo sangue e la sua storia e la Calabria, il Meridione è anche San Francesco di Paola. Il cronista o lo storico odierno predilige le testimonianze chiare, oggettivamente verificabili, date da persone che scruta e delle quali valuta la capacità di osservazione.
Di fronte ai miracoli, più esattamente di fronte alla narrazione di antichi miracoli, rimane turbato. Ma può rifiutare le testimonianze che vengono da lontano, ignorare i grumi di verità impastati nelle leggende? Può chiudere i suoi occhi di scettico davanti alla forza espressiva di ingenui ex-voto, di oleografie popolari nelle quali spesso è magicamente imprigionata l’emozione immediata del fatto-prodigio? Può rifiutarsi di credere a persone sincere vissute secoli prima solo perché queste non disponevano di video-registratori? Ai miracoli, ai santi, si può credere oppure no; ma che essi vivano più a lungo dei cronisti e degli storici scettici nel cuore e nella mente degli uomini è indubitabile.
Francesco di Paola (1416 – 1507), al di là di ogni etichetta politica, fu un uomo essenzialmente religioso. La sua vita molto longeva (morì a 91 anni nutrendosi di erbe e pesci) si divide in due tempi nettamente distinti. Fin verso i settanta anni visse nella sua terra di Calabria, raggiungendo un altissimo indice di popolarità grazie alla pioggia benefica della sua attività taumaturgica. Nel 1483 fu costretto a emigrare in Francia. Tale “trasferta”, che doveva durare qualche mese, invece si protrasse per 24 anni fino alla morte. La fase francese è strettamente legata all’uragano dei suoi miracoli, su cui si soffermarono oltre cento testimoni calabresi e circa sessanta francesi, che deposero al processo di canonizzazione, un’operazione a tempo di record (calato nella tomba nel 1507, il figlio più illustre di Paola fu elevato agli altari nel 1519 da Leone X).
Molti prodigi andavano a favore dei lavoratori. Per aiutare gli operai in difficoltà entrava nelle fornaci infuocate per ripararle, senza essere toccato dalle fiamme; massi enormi li rendeva leggeri con un segno della croce; faceva scaturire fonti d’acqua nella sua terra arida dove ci fosse sete. La sua cella disadorna era un ambulatorio di guarigioni straordinarie di vari malati (ciechi, sordi, muti, paralitici, colpiti da infezioni maligne).
Uomo terribile con i prepotenti, era dolcissimo con gli umili e aveva grande dimestichezza con gli animali. Figlio dei campi, conosceva alla perfezione le erbe e le utilizzava sui vari infermi, che i medici avevano dati per spacciati, guarendoli con la fede. Se qualche avversario lo accusava di essere un “erbarolo”, ossia di sanare i malati con medicamenti vegetali, molti altri lo ritenevano un uomo di Dio. Fra questi c’era il “cristianissimo” re Luigi XI di Francia: terrorizzato da una malattia mortale, lo chiamò, come adesso si assolderebbe un luminare della scienza medica. Ma il taumaturgo rifiutò, allergico com’era ai potenti. Lo scaltro monarca si rivolse a papa Sisto IV, cui il sant’uomo non poteva non obbedire.
E così, nel corso dell’anno 1483, “l’erbarolo” di Paola partì per la Francia da cui non fece più ritorno. Lungo il cammino che doveva portarlo a Tours, dove aveva sede la corte francese, sostò a Napoli, accolto da una marea di folla che se lo contendeva a gomitate nel tentativo di strappargli un lembo del rozzo saio sdrucito. A Napoli regnava Ferrante d’Aragona, che l’Eremita di Paola aveva ripetutamente stigmatizzato per il suo malgoverno, la condotta licenziosa dei suoi cortigiani, le esosità fiscali e i soprusi commessi ai danni di un popolo misero e indifeso.
In un primo momento il monarca pensò di catturarlo e sbatterlo in prigione, ma ben presto rinunciò al progetto: ora il vecchio taumaturgo era amico del potentissimo re francese, e cambiò atteggiamento. Oltre ad offrirgli ospitalità nella reggia, gli fece dono di un vassoio colmo di monete preziose per l’edificazione di un convento nella capitale del regno. Ma il rigoroso asceta non battè ciglio, e fece al re iniquo una reprimenda in lingua calabrese. Secondo la fantasiosa agiografia tradizionale, il santo eremita aggiunse all’invettiva rovente un gesto di rara potenza profetica. Spezzò con le dita una di quelle monete, da cui sgorgò sangue. Esclamò: “Questo è il sangue dei sudditi che grida vendetta al cospetto di Dio.”
Se a oltre sei secoli di distanza Francesco di Paola è il primo santo nel culto della Calabria e dintorni, lo si deve all’amore dell’umile Frate verso il popolo, espresso sia nei soccorsi miracolosi sia nella difesa dei “cafoni” contro l’iniquità dei baroni. Francesco di Paola è un meridionalista, che ha preceduto di quattro secoli Fortunato e Salvemini?
Il viaggio francese, che doveva essere una trasferta d’emergenza per la salvezza del re moribondo, fallì questo obiettivo e si trasformò in una residenza. Si recò a Tours, nel castello dove abitava Luigi XI, e gli dichiarò con convincente dolcezza che non poteva restituirgli la salute, ma fece un miracolo più rilevante: procurò la conversione insperata di quel re, che a parole era denominato “cristianissimo”, ma di fatto non aveva molti rivali in fatto di prepotenza e di oppressioni. Fattucchieri e ciarlatani gli promettevano la pronta guarigione, ma il re preferiva la compagnia dell’umile frate barbuto, che gli diceva nella sua lingua la verità in nome di Dio e lo metteva in pace. Non mancò di rimproverargli le estorsioni ai sudditi, preparandolo ad accogliere serenamente “sorella morte”.
Dopo la scomparsa di Luigi XI , Francesco fu consigliere di altri re (Carlo VIII e Luigi XII), rimanendo in Francia fino alla morte, che lo colse il Venerdì Santo del 1507, lasciando una regola severissima per i suoi “Minimi”.