Permane il mistero sulla vera identità dell’uomo che uccise il Duce e Clara Petacci. Non fu di certo, come si è creduto per molti anni, il “colonnello Valerio”, alias Walter Audisio. Ancora oggi, il vero giustiziere è senza volto. Proviamo a ripercorrere le strade più importanti e conclamate rivendicazioni succedutesi nell’arco di tutti questi anni.
Sulla morte di Mussolini nessuno, neppure il massimo storico del fascismo, Renzo De Felice, è riuscito a fare luce. Molti racconti, molte rivendicazioni, molte menzogne, molte ipotesi. Di sicuro c’è solo che è stato giustiziato.
Una delle ipotesi che oggi vanno per la maggiore (quella secondo cui gli agenti britannici avrebbero battuto sul tempo quelli sovietici, cioè i partigiani comunisti, per far tacere due voci scomode, quelle del Duce e quella di Claretta Petacci, e impadronirsi del compromettente carteggio Mussolini-Churchill) venne formulata per la prima volta nel 1994 da uno storico comasco, Luciano Garibaldi.
L’ipotesi si basava da una parte sulla confutazione delle versioni ufficiali o ufficiose fino a quel momento divulgate, dall’altra sullo studio dei movimenti di un personaggio enigmatico, il personaggio chiave dell’intera vicenda, ovvero Luigi Canali, noto come “il capitano Neri” della Resistenza nel comasco.
Canali, a partire dal pomeriggio di venerdì 27 aprile 1945, ebbe in consegna, o meglio dispose della persona del Duce, e il successivo 7 maggio fu assassinato dai suoi stessi compagni di partito, i comunisti.
La motivazione ufficiale? Una vecchia sentenza di condanna a morte contro di lui emessa in precedenza da un tribunale partigiano per un presunto tradimento.
Ma prima di imboccare e procedere lungo la “pista inglese”, conviene ripercorrere le strade delle più importanti e conclamate rivendicazioni succedutesi per ottanta anni.
Cominciamo da quella ufficiale, la più conosciuta ma anche, paradossalmente, la più platealmente falsa: quella, mitizzata persino al cinema, secondo cui Mussolini e la Petacci furono fucilati davanti al cancello di villa Belmonte, a Giulino di Mezzegra, da Walter Audisio, il “colonnello Valerio”.
I due partigiani che catturarono il capo del fascismo, Urbano Lazzaro e il conte Pier Bellini delle Stelle — entrambi a lungo in contatto con l’uomo mandato dal Comando del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) — il 28 marzo 1947 lo videro, indossava un basco nero su un impermeabile bianco, al comizio del PCI alla basilica di Massenzio a Roma.
Non lo riconobbero. L’uomo sul palco, presentato come colui che aveva eliminato il Duce, non era lo stesso di Dongo. Entrambi non ebbero dubbi. Il “Valerio” di Dongo non era quello di Roma.
E allora? Il mistero non è stato mai svelato nel corso degli anni.
I dubbi sul personaggio erano molti. A Dongo, un fotografo dilettante, il commerciante Luca Schettini, filmò con la sua cinepresa a passo ridotto la scena della fucilazione dei gerarchi fascisti sul lungolago.
Il sedicente “Valerio” piombò su di lui e gli strappò il rullino. Di quella scena non si doveva vedere nulla (restò una sola immagine, scattata da altri, con i prigionieri metà a terra e metà ancora in piedi), oppure non si doveva vedere lui, il giustiziere?
Del “Valerio” di Dongo non esiste una sola foto, mentre sono molte quelle di quel giorno: la gente in festa, i partigiani dell’ultima ora mentre brandiscono armi e urlano, ragazzi e ragazze che si abbracciano, le vie del paese traboccanti di folla, gli autocarri della colonna tedesca su cui si era rifugiato Mussolini fermi per il controllo.
Di “Valerio”, nulla. Doveva restare ignoto per ordini superiori?
C’è una versione che Leo Valiani, uno dei grandi protagonisti di quei giorni, non ha escluso, sia pure in via ipotetica: che a Dongo si fosse precipitato col nome di “Valerio”, oltre al ragionier Walter Audisio, di Alessandria, funzionario del partito comunista presso il CLN, anche Luigi Longo, vicecomandante del Corpo volontari della libertà.
E che sia stato Longo, con un blitz di poche ore, a raggiungere la coppia Mussolini-Petacci a Giulino di Mezzegra, togliendola di mezzo per evitarne la consegna agli Alleati e tagliare corto con le titubanze del Comitato di liberazione, formalmente impegnato a consegnare il Duce agli anglo-americani, secondo le clausole del trattato di armistizio.
Una tesi plausibile. Se poi sia stato personalmente Longo a sparare, non si saprà mai. Il probabile esecutore potrebbe essere uno di quelli che andarono con lui.
Ma è difficile pensare che un’impresa storica come quella di giustiziare il dittatore possa essere stata affidata a un personaggio di seconda fila. A un burocrate, a un antifascista senza alcuna vera benemerenza partigiana come Walter Audisio.
Riesce difficile da credere che un organismo dell’efficienza del Partito comunista, leader della Resistenza, potesse aver affidato a un personaggio, tutto sommato, modesto, un ruolo così importante, storico.
È invece più probabile che Longo abbia affidato a “Valerio” soltanto il compito del trasporto di Mussolini a Milano (svolto malissimo: al ritorno, col camion carico dei cadaveri dei fucilati di Dongo e di Mussolini e Claretta, si fece bloccare dai partigiani della Pirelli in via Filzi, lo presero per fascista, lo misero al muro, si salvò solo perché lo lasciarono telefonare al suo Comando).
Mussolini non doveva essere ucciso sul lago di Como, sebbene fosse categorico che era condannato a morte e non bisognava consegnarlo agli Alleati: solo la giustizia del popolo italiano gli avrebbe fatto pagare le sue colpe.
C’è un episodio rivelatore in proposito, di cui non si è tenuto abbastanza conto. Il 28 mattina, all’alba, il Comitato di liberazione nazionale invia al Comando Alleato a Siena il seguente messaggio: «Spiacenti non poter consegnare Mussolini che, processato da tribunale popolare, è stato fucilato stesso posto dove precedentemente fucilati da nazisti quindici patrioti.»
Ma all’alba del 28 aprile, quando parte questo messaggio, Mussolini è ancora vivo, sarà ucciso, forse, nel pomeriggio alle 16.30.
E dunque si capisce come, dopo aver fornito agli Alleati una versione simile per impedirgli di impadronirsi del Duce, occorresse concludere assolutamente l’operazione. E avere la matematica garanzia che sarebbe stata conclusa.
E non era di sicuro il ragionier Walter Audisio l’uomo cui affidare un incarico così importante.
C’erano, a Milano, al Comando Corpo volontari della libertà, partigiani sperimentati, duri, vecchi combattenti di Spagna, gente determinata e decisa.
E si va a scegliere un modesto burocrate, subito entrato in confusione, tanto da non sapere nemmeno dove rivolgersi: arresta di qua e di là per far intendere che comanda lui, arriva a Dongo e non conosce nemmeno i ministri e i gerarchi fascisti (e così manda a morte anche un innocente capitano di aviazione, Pietro Calisti, intruppato per caso nella colonna avendo chiesto un passaggio per tornare a casa).
Riuscì a malapena, nella notte, dopo essersi liberato dai partigiani della Pirelli, a scaricare i cadaveri di Dongo in piazzale Loreto, dove (come dice il messaggio del CLN agli Alleati) il 10 agosto 1944 erano stati fucilati dai fascisti quindici ostaggi italiani innocenti.
Qui si concluse la vicenda del colonnello “Valerio”.
E qui cominciava la sua leggenda.