Intervista a Rita Di Gregorio docente di italiano per parlare del suo libro SBARRE nato dall’esperienza della scuola in carcere, e di come il Metodo Ongaro abbia scardinato catene.
D– Qual è stata la tua motivazione principale nel decidere di lavorare all’interno di un carcere?
Ho scelto di lavorare all’interno del carcere perché, oltre ad essere insegnante di italiano, sono anche counselor e coach, e sentivo che nelle sbarre avrei potuto portare il mio contributo positivo al mondo in modo più pregnante. È stata una scelta e al contempo una sfida che, devo dire, ha letteralmente cambiato il mio modo di vedere la realtà.
D- Qual è stata la sfida più grande che hai affrontato nel lavorare con detenuti?
La sfida che affronto nel lavorare con i detenuti è principalmente nel rapporto con me stessa: ogni giorno trascorso all’interno delle sbarre è un potente lavoro su di me, nel mio ascolto interiore, nell’ascolto del mio corpo e nell’attenzione fluttuante tra il mio non verbale e quello dei miei alunni.
D-Cosa ti ha ispirato a scrivere un libro sul tuo lavoro in carcere?
Ho deciso di scrivere ‘Sbarre’ incoraggiata dal dottor Filippo Ongaro (mi sono certificata come longevity & lifestyle coach nel Metodo Ongaro) mentre stavo conducendo un laboratorio emotivo basato sui fondamenti sul metodo Ongaro proprio con i miei alunni detenuti all’Alta Sicurezza. Parlare con loro di emozioni e di abitudini potenziative, proprio nel luogo dello stress per eccellenza, e vedere che riuscivano -un piccolo passo alla volta – a mettere in pratica quanto dicevamo, è stata un’esperienza molto forte che mi ha portato a riflettere su quante sbarre interiori ci creiamo noi ogni giorno. Mi sono chiesta: siamo davvero liberi noi fuori dalle sbarre? Non tutte le prigioni infatti hanno sbarre e ci sentiamo spesso in gabbia, prigionieri di scelte che ci soffocano. Vorremmo tutti sentirci liberi ma spesso non sappiamo da dove iniziare.
D-Qual è il messaggio principale che desideri trasmettere attraverso il tuo libro?
Il messaggio che voglio trasmettere attraverso questo libro è che si può, che si può essere liberi, si può ritrovare la felicità, raggiungere i nostri obiettivi . Si può smettere di procastinare e di aspettare il momento perfetto per agire – momento perfetto che non arriva mai. Si può uscire dalle sbarre di relazioni poco appaganti, di prigioni emotive che ci soffocano, impedendoci l’espressione più autentica del nostro sé. Il libro è dedicato a te che vuoi sentirti libero, per dirti che puoi!
D-Come hai visto evolvere la situazione all’interno del carcere nel corso degli anni?
Il mio libro non vuole essere una denuncia delle situazioni che si vivono in carcere, perché il carcere è terra di paradossi: da una parte ti può schiacciare, da una parte ti può liberare.
Il mio libro vuole essere invece un evidenziatore di come, anche nelle situazioni più difficili come all’interno di un carcere o come in una corsia d’un ospedale, si possono trovare dentro di noi le risorse per vedere la luce. Diceva Shakespeare: “non c’è notte così buia che non veda il giorno” … ma solo se abbiamo la pazienza di aspettare l’alba. Sicuramente la situazione all’interno del carcere non è delle migliori; Il problema che vedo ogni giorno sempre più grave è la carenza di personale di polizia penitenziaria spesso in burn-out, e di operatori sanitari; di conseguenza tutte le occasioni positive che potrebbero crearsi all’interno di un carcere hanno difficoltà di attuazione.
D-Qual è stato il momento più significativo che hai vissuto durante il tuo lavoro in carcere?
Il momento più significativo che ho vissuto legato al mio lavoro in carcere… l’ho vissuto in realtà fuori dal mio lavoro in carcere, quando un alunno che avevo guidato nel percorso di licenza media è uscito ed è venuto a sostenere l’esame di licenza a scuola, presso la sede del CPIA (scuola statale per adulti che comprende anche la sede carceraria) fuori dalle sbarre. Per me è stato emozionantissimo perché troppo spesso chi esce poi ritorna a delinquere. Mi restituisce un forte segno di speranza il vedere detenuti al fuori che riescono a ricominciare il loro percorso partendo proprio dalla scuola, dallo studio, dalla cultura.
Ogni giorno vivo emozioni all’interno delle sbarre per esempio quando i detenuti mi chiedono disegni da colorare per i loro figli che li vanno a trovare ai colloqui, vederli colorare, disegnare, vederli ritornare bambini ,mi fa vedere quella parte fragile che ha bisogno di essere semplicemente accolta ed amata “Forse professoressa ho bisogno di amarmi di più” queste parole mi scavano sempre solchi all’interno dell’anima.
D-Quali sono le principali lezioni che hai imparato dai detenuti che hai incontrato?
La principale lezione del carcere è che si può rinascere, come l’araba fenice… che si può attraversare il buio e il dolore, e che la vera felicità non è nelle cose che accadano ma è nell’interpretazione della realtà. C’è chi benedice le sbarre perché gli ha salvato la vita e ci sono storie di straordinarie trasformazioni che lo dimostrano
D-Cosa consiglieresti ad altri educatori che sono interessati a lavorare in un contesto simile?
Io lavoro all’interno del carcere come insegnante statale e a tutti gli educatori che scelgono di lavorare in contesti difficili quali quello carcerario dico quello che dico ogni giorno a me stessa a me stessa come mamma, come insegnante e come donna: si tratta di una frase di Ghandi: “Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”.
Si parte da noi stessi, non abbiamo altre alternative. Eliminiamo il giudizio dalle nostre menti e iniziamo dalla nostra realtà.
D-Qual è stata la reazione dei detenuti al tuo libro e come ha influenzato il loro percorso di riabilitazione?
Il libro è uscito da pochissimi giorni e i detenuti ad oggi hanno avuto modo soltanto di vederne la copertina; inizierà però fra una settimana un laboratorio di lettura emozionale basato proprio sulla lettura di Sbarre e sul confronto dei temi che sono trattati in esso: dal rapporto genitori – figli alle relazioni, dagli obiettivi alla ricerca della felicità, dalle paure e gli addii alla leggerezza, al perdono e alla ricerca di senso.
D-Cosa ti ha colpito di più nel vedere la trasformazione dei detenuti che hai seguito nel corso del lavoro in carcere?
Quello che mi colpisce di più è riassumibile nella esperienza emozionale correttiva: non è attraverso i ragionamenti che si possono attuare dei profondi cambiamenti; non si può entrare con i sillogismi della mente nel profondo dell’anima, anche perché le menti spesso sono imbrigliate da 1000 catene educative o diseducative. Ciò che mi colpisce di più è quando riesco attraverso gli occhi a vedere l’anima dei miei alunni detenuti, e vedendo la loro vedo più chiaramente anche la mia.