Anna Bertini è una figura poliedrica nel panorama culturale italiano, con una solida formazione accademica nelle arti e nelle scienze del teatro.
Dopo aver vissuto per anni all’estero, ha conseguito nel 2021 la laurea in Letteratura Arte Musica e Spettacolo. La sua carriera è caratterizzata da un ampio coinvolgimento nell’insegnamento, in particolare nella lingua e letteratura italiana per stranieri, e dalla realizzazione di laboratori creativi per studenti della scuola primaria, che hanno spaziato dalla scrittura all’espressività musicale e teatrale.
Bertini ha avuto anche un ruolo significativo nell’ambito musicale, occupandosi della gestione delle carriere di musicisti e organizzando eventi per importanti istituzioni a livello nazionale e internazionale. La sua passione per la scrittura si riflette nelle numerose pubblicazioni su riviste e antologie, tra cui “Exlibris20”, “Sdiario” e “La Stanza di Virginia”, oltre a un racconto pubblicato in castigliano sulla rivista venezuelana “País de Papel”.
Nel suo percorso editoriale, ha pubblicato diverse raccolte di poesie, come “Profusioni” e “Duende”, e ha curato l’antologia “Madame Europa”.
È autrice anche di “Fuori il silenzio ad ombra”, oltre a un libro illustrato per ragazzi, “Angeli in bicicletta”, realizzato con illustratrice e food blogger.
Il suo primo romanzo, “Le stelle doppie”, pubblicato nel 2020, ha ricevuto riconoscimenti importanti, come il secondo premio Firenze Rive Gauche 2021 e la finalista al premio Tre Colori Lenola Inventa un Film 2022. Infine, nel 2024, ha pubblicato un saggio con Kanaga Edizioni, basato sulla sua tesi di laurea, riguardante i primi due quadri della “Bohème” di Puccini, dimostrando così la sua continua dedizione alla ricerca e all’analisi delle opere artistiche.
Il suo ultimo romanzo, Il Tema di Ethna, esplora il legame tra memoria e identità attraverso il viaggio interiore della protagonista, una donna che, attraverso la scrittura, tenta di ricostruire il proprio passato e riconciliarsi con esso.
In questa intervista, Anna Bertini ci accompagna nel cuore del suo romanzo, raccontandoci il valore dei luoghi, della musica e delle relazioni umane nel processo di crescita e trasformazione personale.
D- Nel romanzo, Ethna torna al Castello di Sonnino. Quanto pensi che i luoghi influenzino la nostra memoria e la nostra identità? Hai mai avuto un’esperienza simile?
Sì, ho avuto queste esperienze e sono convinta che i luoghi conferiscano un imprinting decisivo alla nostra memoria. Questo vale tanto per quella individuale che per quella collettiva, mi pare. La mia vita è stata segnata da molti allontanamenti e ritorni, da un nomadismo continuo, ma dentro a quello, i posti che mi hanno accolta, che ho scelto e talvolta mi hanno scelta per fare casa, sono stati di certo capaci di orientare il mio percorso. Per questo romanzo è stata importante la frequentazione della Baia di Dublino nel momento in cui mia figlia si era trasferita lì per i suoi studi. Attaccarmi a quei luoghi, collegarli con i miei, ha voluto dire esserle più vicina.
D- Ethna inizia a scrivere usando la scrittura come processo terapeutico per riflettere su se stessa e sulla sua vita. Quanto pensi che la scrittura possa diventare uno strumento di auto-riflessione e guarigione per gli autori?
La scrittura è un mezzo potentissimo di terapia, autoterapia, ricerca, focalizzazione del sé. Io la uso da quando sono bambina, prima inconsapevolmente poi con discernimento; per un periodo ho seguito anche un gruppo nel Comune dove risiedo, l’esperienza si chiamava “Scrittura come consapevolezza del sé”. Un motivo per cui oggi si scrive forse troppo è proprio che la fruizione di questa esperienza positiva si è allargata, e spesso conduce al desiderio di passare dall’essersi “scritti” al venire “letti”. Diciamo che quando sul sé prende il sopravvento l’ego, e questo oggi capita troppo spesso, allora la parte buona dello sforzo di raccontarsi può risultarne inficiata. Ho scelto di rendere la mia protagonista consapevole che lo sforzo di “comporre con le parole” e non con la musica, come per lei naturale, valesse soprattutto in quanto percorso chiarificatore della propria interiorità.
D- La tua protagonista vive un percorso di scoperta di sé e delle sue origini. Qual è l’importanza di affrontare il passato per comprendere il presente e costruire il futuro?
Oggi giorno abbiamo acquisito maggiore consapevolezza dell’importanza che ha affrontare il passato, chiudere i cerchi ed esplorare “i buchi neri” della nostra storia. La psicologia e la psicoanalisi sicuramente hanno aiutato molto. Nel mio precedente romanzo, Le Stelle Doppie, parlavo proprio di questo: ritornare sui nodi della nostra storia personale, tentare di sciogliere, ripartire più leggeri e consapevoli, dove possibile. Quello che in entrambi i romanzi, anche in questo, mi preme di dire è che la guarigione non è affatto impossibile e dipende spesso dalla nostra volontà: non “siamo” il nostro trauma per tutta la vita. Abbiamo la chance di non esserlo, possiamo cucire la ferita con cura, non negandola, ma accarezzandola e volendole bene, poi proseguire, più sani e più forti. Il dolore non sia una culla per fuggire dalle proprie responsabilità di evolvere come individui.
D- La musica gioca un ruolo fondamentale nella vita di Ethna. In che modo pensi che la musica e la letteratura si intersechino e influenzino reciprocamente le emozioni umane?
È un intreccio potente, un abbraccio. Nel romanzo cerco di renderlo tangibile. Infatti, il “Tema”, del titolo è inteso nella sua doppia accezione di “svolgimento” di una disanima o di un racconto, e di “leitmotiv”, linea melodica che accompagna il personaggio o l’ambiente, e ce lo “disegna” in musica. Non a caso faccio dire a Ethna nel finale: “credo che la nostra epoca (lei intende il Novecento) sia quella che ha fatto entrare la musica nel modo di raccontarsi”.
D- Nel libro, i vari personaggi che Ethna incontra sembrano avere un impatto significativo sulla sua vita. Come hai sviluppato questi personaggi e quale messaggio vuoi trasmettere attraverso le loro interazioni?
Credo molto nel potere delle relazioni. Non di quelle malate, o viziate, che anzi vanno risolte o allontanate, ma sono certa che dove il nostro animo sia capace di appoggiarsi a un altro, entrambi lavorino insieme per una maggiore felicità. Le relazioni che ci risolvono, ci danno amore e sostegno, evidenziano la volontà di guarigione e benessere che abbiamo. Al contrario chi costruisce sempre e soltanto relazioni conflittuali, evidenzia il conflitto interiore di cui non sa liberarsi. Nel confronto sano con l’altro possiamo solo crescere, anche nella capacità di amarci, assolverci. Ho costruito i miei personaggi intorno a questa verità che, negli anni, sono riuscita a far valere per me. Le amicizie, la stima, il confronto e la solidarietà che ho trovato sul mio cammino mi hanno aiutato a superare i molti traumi che mi trascino dietro dalla storia famigliare.
D- La storia di Ethna è profondamente legata alla sua famiglia. Quali sono le dinamiche familiari che hai voluto esplorare e come influiscono sull’identità individuale?
Ethna ha mantenuto un legame ombelicale con i genitori, non perché manchi di autonomia, ma perché –nonostante lo sradicamento che ha dovuto affrontare nella pubertà, a dieci anni, allorché dall’Irlanda è andata a vivere a Firenze – ha goduto di un’infanzia felice, profondamente connessa emozionalmente a quella di Lora ed Enzo, i suoi. La tematica più forte di questa storia è sicuramente quella dell’affiliazione, e di conseguenza dell’identità profonda. Ho voluto parlare del legame emotivo, infatti, non di quello formale, tra individui. Secondariamente, ho voluto che i miei personaggi fossero multiculturali, persone la cui identità si forma, e non si sfascia, nella frequentazione di ambienti, culture, lingue diverse.
D- Il romanzo si muove tra diverse epoche. Come hai affrontato la sfida di mantenere coerenza e coinvolgimento narrativo nel passare da un periodo all’altro?
L’aderenza al contesto e la veridicità dell’invenzione narrativa sono molto importanti per me. Il che non vuol dire che non possa e voglia scrivere anche storie più magiche, scollegate dal reale, in passato ho scritto molti racconti così. Ma se decido di fondare una storia in un’epoca, sto molto attenta a collegarla in modo appropriato a quella, faccio lunghe ricerche sugli eventi salienti, le abitudini – anche la musica o la letteratura – di quel tempo; mi piace sviluppare un quadro coerente. Più che due epoche diverse, ne “Il tema di Ethna” ci sono due epoche che confluiscono l’una nell’altra ma non armoniosamente. Solo che io non le affronto in modo lineare, ma ci vado “in su e in giù” per così dire. Infatti, entriamo nella storia nel 2004, poi torniamo al ’58 e al ’68, per tornare nel 1997, e poi da lì piano, tornare al 2004-2005. Quello che volevo sottolineare, anche creando un coinvolgimento che potesse valere sia per chi quel periodo lo ha vissuto, che per chi è nato dopo – come i nostri figli – è che la fine del Novecento ha chiuso brutalmente alcune istanze culturali, sociali, e le ha sostituite con altre che sono state difficili da assimilare. Ci siamo trovati di fronte a una frattura, e ci siamo sentiti spaesati, credo che questo si possa dire, almeno per la mia generazione.
D- Ethna scopre di non essere la figlia biologica del padre. Come hai voluto affrontare il tema dell’identità e delle sue molteplici sfaccettature nel tuo libro?
Partendo da presupposto che vale ciò che ho detto sopra, e cioè che l’identità per me si fonda sulla ricerca interiore e sulla maturità emozionale, non su qualche radice “etno-geografica”, è chiaro che avendo una figlia adottiva – e conoscendo cosa voglia dire, nel caso di un’adozione, dover affrontare la ri-costruzione di un’identità – mi sono posta vicino a Ethna comprendendone la sensazione di scardinamento, allorché scopre di non essere la figlia naturale di Enzo Sarfatti. Proprio perché lei ha “scelto” in modo profondo Enzo come padre, il crollo delle sicurezze che deve affrontare è notevole. Partendo da questo momento cruciale, ho cercato di disegnare un percorso lento e sfaccettato di ricostruzione dei riferimenti, e quindi dell’identità, che si fondi sui sentimenti e sulla capacità di accettare l’altro, e anche se stessi.
D- Il diario di Ethna è un elemento centrale della trama. Cosa rappresenta per lei e quale significato attribuisci tu al diario come strumento di introspezione?
Il diario è un alleato incredibile nella ricerca di consapevolezza. Io conservo ancora un diario di quando ero adolescente, di quelli chiusi a chiave con un lucchettino, dove scrivevo di tutto, le cose più disparate. Dalle confessioni dei primi innamoramenti agli scambi con le amiche di scuola, dai testi delle canzoni arrivando alle cronache del Giro d’Italia che mio padre ascoltava alla radio e io seguivo seduta sul terrazzino, facendo finta di essere al “campeggio”. Per Ethna, probabilmente, il diario corrisponde alla voglia di avere un certo tipo di interlocutore, uno che la ascolti in silenzio e le permetta di ingoiare i suoi rospi. Lei sa solo che ha bisogno di scrivere la sua storia, non perché quella debba necessariamente interessare a qualcuno, ma perché ha bisogno di ripercorrerla, digerirla. Nel romanzo che sto scrivendo adesso invece, la protagonista ritrova un diario della madre, alla morte di lei. Non è un diario che le rivela cose scabrose, perché la donna già sa quali sono stati i grandi drammi nella vita di chi l’ha generata. Ma sono proprio i momenti di “normalità”, di poesia del quotidiano, le lettere delle amiche che la madre vi ha lasciato dentro, i biglietti del teatro, le poesie strappate dai libri di scuola, che le insegneranno cose nuove sulla mamma. Concordo quindi in toto sul fatto che un diario sia un grande strumento di introspezione.
D- Qual è il messaggio principale che speri di trasmettere ai lettori attraverso la storia di Ethna e la sua ricerca di se stessa?
Non so se sono in grado di dare una risposta secca a questa domanda, che è bella e difficile. Però mi sento di dire che forse il messaggio più universale che ho messo dentro è che ogni individualità vale, ogni vita che trovi il proprio senso, anche non immediatamente, vale. Non abbiamo né bisogno di fare bene tutto e subito, né di fare qualcosa di straordinario, perché la nostra vita sia preziosa. Basta trovare una bussola che ci permetta piano piano di orientarci; e non soffocare mai le passioni che ci animano.
D- Puoi raccontarci un po’ del tuo processo di scrittura? Ci sono stati momenti particolarmente difficili o rivelatori durante la stesura del romanzo?
Come con tutte le mie scritture, io ho bisogno di molto tempo. Spesso parto anche “riesumando” nuclei di storie nate molto tempo prima. In questo romanzo è certamente confluito un racconto che avevo scritto per Laura Grimaldi, la grande giallista, con la quale avevo fatto un corso; si trattava allora di imparare a creare un climax. Mi riferisco alla parte ambientata a Castel Sonnino, con la sparizione della “vicina di camera” di Ethna. La rielaborazione è stata pressoché totale, ma molti elementi di quella storia, che alla Grimaldi era piaciuta molto, ci sono ne “Il Tema”. Invece la parte irlandese è maturata dal 2019 al 2022, quando mia figlia studiava a Dublino. Un lavoro che mi piace molto è creare intrecci coerenti tra due stoffe per farle diventare una storia sola, e questo è ciò che è successo con i due nuclei sui quali ho lavorato qui. Ho avuto poi una grossa crisi nell’estate del 2021, e ho smesso proprio di scrivere. Era morta mia madre, mia figlia stava attraversando una pesante crisi esistenziale. Quando quel momento terribile ha cominciato a risolversi, a poco a poco, gli stessi strumenti che mi hanno permesso di ritrovare una certa serenità personale mi hanno aiutato a portare la mia trama verso lo scioglimento.
D- Ci sono autori o opere che ti hanno ispirato durante la scrittura di questo libro? Se sì, in che modo?
Per essere onesta, io so di essere molto fedele ai miei riferimenti letterari di sempre. Quando ho cominciato a organizzare la mia scrittura, che c’è sempre stata, ho avuto la spinta di letture contemporanee fondamentali, di autori che sono diventati i miei maestri; primi tra tutti Antonio Tabucchi e Daniele del Giudice. Sono inimitabili, e questo è molto importante, così non può venire la voglia di scimmiottarli; però sono consapevole che nelle mie scelte, nel tentativo di creare un mio stile, loro hanno avuto più peso di qualunque altro scrittore. Devo dire che una scrittrice che oggi è pressoché dimenticata e per me invece è stata importante è Francesca Duranti. Un’altra personalità significativa per la mia scrittura è Grace Paley, che mi ha insegnato soprattutto l’importanza di ciò che non conosciamo ancora delle storie che andiamo a scrivere, e che quindi la scrittura stessa ci permetterà di indagare. Tra gli autori che ho letto in tempi recenti e mi hanno lasciato molto ci sono Antonio Franchini ed Eskol Nevo. Gli insegnamenti fondamentali per il mio progresso di autrice sono stati quelli tratti dal saper usare una lingua che si mantenga elegante, mai trascurata, ma sappia allo stesso tempo risultare leggera, non troppo sofisticata ed elaborata, anche quando ha momenti intensi. Su questo ho dovuto lavorare molto, perché venivo dalla poesia, e ho usato troppo a lungo un eccessivo lirismo, credo. Oggi guardo a una scrittura che sia capace di parlare anche di drammi, di tragicità, senza trattenere il pathos tra le righe, e allo stesso tempo sappia far sorridere, anche nei momenti più “pesanti”. Sono poco incline all’uso delle scritture che tengono lontane le emozioni, oggi spesso chiamate “chirurgiche”. Non partecipare emozionalmente a quello che scrivo mi è impossibile.