Si svegliava alle sei, sbarbato e vestito di tutto punto si metteva a scrivere: dalle sette alle dieci, minuto più minuto meno. Dopo se ne andava in giro per il quartiere, al bar, a comprare le sigarette, a raccogliere le frasi perdute della gente, che poi finivano in qualche suo romanzo. Nel primo pomeriggio si rimetteva al lavoro per rivedere le pagine, correggere, riscrivere, per altre tre ore. Talvolta, la sera, andava a teatro con la moglie Rosetta.
Questa era, più o meno, la sua giornata tipo. Tra queste giornate uguali, scandite dagli stessi riti sono passati oltre trent’anni, una quarantina di romanzi tradotti in tutto il mondo e venduti in circa trenta milioni di copie, record assoluto per uno scrittore italiano. I suoi titoli figuravano (e figurano) nella classifica dei primi dieci romanzi più venduti.
Camilleri era una bottega da best-seller, una formidabile macchina di scrittura. Aveva una sorta di ossessione, quella nei confronti della più grande macchina per scrivere della storia della letteratura: Georges Simenon. L’aveva letto, studiato, conosciuto, ammirato e naturalmente imitato per tutta la vita. Gli aveva offerto un omaggio straordinario e molto gradito da Simenon, curandola più bella traduzione in immagini delle inchieste del commissario Maigret mai girata: quella con l’indimenticabile Gino Cervi. Simenon, autore di centinaia di romanzi, ricorreva ad una serie infinita di trucchi, più un monumentale archivio, una biblioteca di babele fatta di appunti, mappe, documenti.
Camilleri, invece, non aveva un archivio, non prendeva appunti, niente. Aveva però un’ottima memoria, ordinato, metodico, ma non aveva testa per un archivio. Un’altra cosa: Simenon era andato a scuola da un commissario del Quai des Orfevres per imparare le tecniche di indagine. Lui no. Aveva conosciuto commissari di polizia solo dopo aver creato Montalbano. Forse ciò era dovuto al fatto che, a differenza di Simenon, Camilleri aveva l’anima dello “sbirro”.
In comune con Simenon aveva la lettura dei fatti di cronaca, pagine e pagine da una decina di giornali, anche locali, e poi l’immersione nella realtà quotidiana del quartiere, la strada. Gli piaceva inzupparsi di realtà, convinto che i fatti reali fossero sempre più imprevedibili delle trame degli scrittori.
Come nascevano i suoi romanzi? Camilleri ha sempre, candidamente ammesso di non saperlo, di non averlo mai capito. Leggeva tanti piccoli fatti di cronaca, ascoltava frasi per strada. Due o tre rimanevano in mente, crescevano fino a diventare una storia. Non aveva molta fiducia nelle tecniche, nelle scuole di scrittura. Per lui la migliore scuola per imparare a scrivere, raccontava ai giovani aspiranti scrittori, era ascoltare e naturalmente leggere gli scrittori che piacciono e provare a capire come hanno fatto.
La sua biblioteca, immensa, era tutta sistemata in ordine alfabetico, tranne lo scaffale dietro la scrivania. Lì c’erano gli autori prediletti: Cechov, Gogol, Beckett, Faulkner, Pirandello, Sciascia e, naturalmente, Simenon. Aveva cominciato a pubblicare prima dei vent’anni sulla rivista Mercurio. Nel ’47 Ungaretti lo inserì in un’antologia di nuovi poeti.
L’anno dopo Carlo Bo e Gianfranco Contini lo inserirono in un’altra, accanto a Pasolini, Zanzotto e altri. Poi sparisce per mezzo secolo: il lavoro alla RAI come autore. Quando gli torna la voglia di scrivere, si trova di fronte ad un problema: non trova la lingua per raccontare. Così finisce per ascoltare sé stesso. Gli viene in mente la storia de “Il corso delle cose” e vuole scriverla. Ma non ci riesce.
In quel periodo suo padre era malato, passava le notti con lui a raccontare il romanzo, alla sua maniera, in quel misto di dialetto e italiano della piccola borghesia siciliana. Finché non gli viene l’idea: perché non scrivere come raccontava a suo padre? Lo scrisse in poco tempo e lo consegnò a Niccolò Gallo, grande critico, che gli promise di pubblicarlo entro l’anno. Gallo sparì. E il romanzo attese altri dieci anni. Non era facile far passare quella lingua al vaglio degli editori. Tutti gli consigliavano di lasciar perdere quella lingua bastarda. Perfino Sciascia cercava di persuaderlo: i lettori, soprattutto siciliani, non l’avrebbero capito.
Ma lui era convinto che quella lingua bastarda andava benissimo: l’italiano serviva ad esprimere il concetto, il dialetto descriveva il sentimento. I suoi romanzi storici, bellissimi, cominciano a vendere con Sellerio. E poi arriva la “bomba” Montalbano, nato quasi per gioco. Nella primavera del 1998 gli scrisse dall’Università di Cagliari il prof. Giuseppe Marci: lo invitava ad un incontro con gli studenti che avevano seguito un corso dedicato al suo “Birraio di Preston”. Camilleri accettò. E fu così che all’aeroporto di Cagliari incontrò Salvo Montalbano. Era impressionante la sua somiglianza con il personaggio che lo scrittore aveva in mente: si materializzava l’immagine del commissario che fino a quel momento era ancora come un puzzle mancante di alcuni pezzi di sfondo.
Qualche tempo dopo, il produttore Carlo Degli Esposti cominciò a pensare alla serie televisiva, e chiese a Camilleri delucidazioni sull’aspetto fisico di Montalbano. Lo scrittore se la cavò pregando il prof. Marci di mandargli alcune sue foto. Ma non si trovò un attore che gli somigliasse; e allora decisero di prescindere. Infatti il bravissimo Luca Zingaretti non ha nulla a che fare col Montalbano dei romanzi; basti pensare che il commissario ha capelli e baffi. Camilleri ha più volte sottolineato di essersi ispirato alla figura di Ciccio Ingravallo (il commissario di “Quel pasticciaccio brutto di via Merulana” di C.E. Gadda) interpretato sullo schermo da Pietro Germi; solo che Montalbano non è così alto e ha la faccia un po’ larga, da contadino.
Porto Empedocle, paese di Camilleri, ha dedicato una statua al suo commissario. L’autore è lo stesso scultore che ha fatto il monumento a Sciascia, a Racalmuto. E, come quello di Sciascia, anche il monumento a Montalbano ha trovato la sua collocazione in mezzo alla strada. Sciascia passeggia fumando una sigaretta, Montalbano se ne sta appoggiato ad un lampione. Molti dicono che non somiglia a Montalbano, altrettanti dicono invece che gli somiglia. E’ inevitabile: ogni lettore si crea il suo Montalbano. E come ogni personaggio romanzesco Montalbano è, pirandellianamente, uno nessuno e centomila.