Fu la donna che seppe anticipare e dare voce ai sentimenti più viscerali di un Occidente lacerato. Una giornalista scomoda che diventò, nel bene e nel male, un vero e proprio mito.
Si definiva “una antica signora”, anzi “una signora all’antica”. Il suo appartamento di New York era della metà dell’Ottocento ed era arredato all’antica: mobili, lumi, paralumi, quadri, vasellame, soprammobili, persino gli apparecchi telefonici. La casa di Firenze e quella nel Chianti, lo stesso. Tutto ciò che collezionava era antico, soprattutto libri: del Seicento, Settecento, Ottocento. Ma non era una chiusura crepuscolare a dettare queste scelte: era un’altra delle sue passioni. Quella del Passato.
Per lei qualsiasi oggetto del Passato era sacro, perché era una testimonianza di ciò che fummo e ciò che facemmo. Ogni oggetto sopravvissuto al Passato era prezioso, perché portava in sé un’illusione di eternità. Perché rappresenta una vittoria sul Tempo che logora e appassisce. Riteneva, a ragione, che se non si conosce il Passato non si capisce il presente e non si può tentare di influenzare il futuro con i sogni e le fantasie. Era una donna “severa”, e severamente viveva e si vestiva. Niente lussi, abitudini quasi spartane. Severamente disprezzava il denaro e giudicava con severità. Severamente puniva e, se necessario, con severità si autopuniva. Rifiutava quasi tutte le comodità offerte dalla moderna tecnologia. Non ha mai usato il computer, non ne ha mai posseduto uno. E guai a chi tentava di regalarglielo. Ha sempre usato la stessa vecchia Olivetti che usava in Vietnam. Sapeva scrivere solo con quella, come un violinista sa suonare solo il suo violino. Affermava di non saper scrivere con una macchina silenziosa: se non la sentiva battere, non le venivano le parole e neanche i pensieri. Faceva collezione di vecchie macchine da scrivere, le collezionava come pezzi d’autore.
Rifiutava la pubblicità, la detestava, in ogni suo aspetto e in ogni sua forma. Se agli inizi della sua carriera non era difficile vederla partecipare alla promozione dei suoi libri, interviste, apparizioni televisive ecc., negli ultimi tempi era diventato sempre più difficile, praticamente impossibile. E ciò era forse dovuto in parte anche al comportamento, talvolta ostile, che la maggior parte dei giornali teneva nei suoi riguardi. Non si riconosceva nelle cose che gli altri scrivevano di lei, quanto alle interviste, le detestava, perché le attribuivano sempre cose non dette, perché talvolta storpiavano le cose che aveva detto fino a cambiarne il significato.
Era uno dei pochi personaggi italiani conosciuti in tutto il mondo. L’università di Boston, la più antica università statunitense, per decenni le ha dedicato una “Oriana Fallaci’s Special collection” : raccoglie tutti i suoi manoscritti, tutte le traduzioni dei suoi libri, tutto il materiale che riguardava il suo lavoro. In America ha ricevuto prestigiose lauree ad honorem: per i suoi scritti che avevano portato il giornalismo politico ad un nuovo livello. Le sue interviste ai potenti della Terra erano considerate stupefacenti per il loro coraggio e la loro intelligenza indagatrice.
Nel nostro Paese, dove le lauree ad honorem vengono generosamente conferite anche a giornalisti stranieri, nulla. Mai nulla. Mai ricevuto riconoscimenti dalla sua amata patria e meno che mai dalla sua amata Firenze. A parte qualche premio letterario. Patria matrigna: per decenni molti giornali le rovesciarono addosso un cumulo di perfidie e di insulti, ingiustificati e ridicoli. Basta leggere “La rabbia e l’orgoglio” e “Lettera ad un bambino mai nato”, libri letti e tradotti in tutto il mondo. Qualche giornale scrisse addirittura che le sue interviste ai capi di stato del mondo erano frutto della fantasia. Insulti e aggressioni che Oriana Fallaci non ha mai dimenticato, parlandone con sprezzante distacco. Perché queste aggressioni? Forse perché non apparteneva a nessun partito, a nessuna congrega più o meno letteraria? Forse non le perdonavano il successo planetario?
Teneva moltissimo alla sua indipendenza di giudizio, alla sua libertà di pensiero. Per lei destra e sinistra erano due facce della stessa medaglia: la faccia della bigotteria, della intolleranza, dell’incapacità di essere liberi e pensare col proprio cervello: guardare le cose col proprio cervello. Era molto fiera di non avere ombrelli politici, di non appartenere a nessun gruppo o club o lobby, di essere attaccata dagli uni e dagli altri.
Era una donna colta, con una profonda conoscenza della Storia. Ovviamente conosceva la storia della Letteratura e, da buona fiorentina, aveva una quasi naturale esperienza di storia dell’Arte. Amava la musica e la matematica. La cultura, insieme alla politica, le scorreva nel sangue.
Era entrata nel giornalismo a diciassette anni, al giornalismo ha dedicato gran parte della sua vita, nel giornalismo si rivelò e si distinse. Al giornalismo riconosceva di dovere molto: le aveva regalato l’avventura, la conoscenza, l’esperienza. Si definiva una scrittrice prestata al giornalismo.
Definiva “alieno” la sua malattia, il cancro che l’ha portata alla morte. Non ha mai nascosto di avere un cancro, e trovava sbagliato che qualcuno lo facesse.
Era una grande, accanita fumatrice. Fumava sigarette speciali, che si trovano solo in un negozio di New York, da Sherman. E non era d’accordo con quanti ricercavano nel fumo la causa del suo male. Sua madre non fumava, ed era morta di cancro. Suo padre non fumava, ed era morto di cancro. Così come lo zio Bruno e le sue sorelle Neera e Paola, e non fumavano. Forse nel suo caso il fumo c’entrava, ma era il fumo che respirò nel Kuwait subito dopo la fine della Guerra nel Golfo. Il fumo che scaturiva dai pozzi di petrolio bruciati da Saddam Hussein.
Quando fu ricoverata per sottoporsi ad un intervento chirurgico al polmone, fece un fioretto: promise a sé stessa che non avrebbe mai più fumato. Ma, quando si svegliò dall’anestesia, vide accanto al suo letto due dei chirurghi che l’avevano operata, ed entrambi fumavano. Allora? Chiese sbalordita. I due chirurghi le spiegarono che il suo cancro era di natura genetica e non era dovuto all’eccesso di fumo. Quelle parole furono musica per le sue orecchie. Riprese a fumare. Fumava tanto, è vero. Ma con molta cautela, non aspirava. Probabilmente il suo, più che un desiderio di fumo era un gesto nervoso. Non riusciva a scrivere senza fumare, fumava per scrivere. Come Leonardo Sciascia.
La vecchiaia non le faceva paura. La rispettava. E trovava stupidi coloro che tentano di apparire meno vecchi di quello che sono: gli uomini che vogliono nascondere la calvizie, ad esempio, o le donne che ricorrono alla chirurgia plastica e che si disperano, a settant’anni, per un capello bianco. Riteneva la vecchiaia una conquista, una fortuna, visto che l’alternativa è il cimitero. Amava la vecchiaia perché, diceva, è la stagione che ci regala il dono della completa libertà. E’ una sorta di catarsi, non si teme più nulla e nessuno, da vecchi. Unico rischio: la mancanza di senso etico, perché si può credere che tutto ci sia lecito. Perché da vecchi si sa di più, si capisce di più, si ha un tesoro di conoscenza e di sapienza che da giovani non ci sogniamo nemmeno. Perché da giovani spesso si è presuntuosi: non sai un tubo e ti sembra di sapere tutto. Da vecchi, invece, socraticamente ci si accorge di sapere troppo poco. E si diventa anche consapevoli della brevità della vita. E in questa consapevolezza, chi può, ha voglia di fare ciò che non ha mai fatto, cerca di colmare quel vuoto.
Quando i medici dello Sloan Cancer Center di New York, che l’avevano curata e seguita lungo tutto il percorso della sua malattia, alzarono bandiera bianca, Oriana fece spallucce, se lo aspettava. Non versò una lacrima. Volle trascorrere gli ultimi giorni di vita nella sua amata Firenze.
Muore il 15 settembre 2006. E’ sepolta presso il cimitero degli Allori.