Lo scorso sabato 22 febbraio, a Ischia, presso Villa Arbusto nel comune di Lacco Ameno, è stata inaugurata una targa in memoria di Lenin, padre della Rivoluzione Russa che, nel 1910, soggiornò per tre giorni al Grand Hotel Salus in compagnia dell’ereditiera americana Cindy Morgan. L’evento è stato organizzato dall’Associazione Iskra e dal Comune di Lacco Ameno, con il saluto istituzionale del vicesindaco, l’architetto Carla Tufano, e gli interventi del Prof. Gianni Vuoso (Iskra), dell’Avvocato Mauro Buono e del Prof. Antonio Martone (docente di Filosofia Politica all’Università di Salerno). Il tutto seguito da un contributo musicale del Maestro Denis Trani e da una proiezione a tema. La cerimonia si è conclusa nei giardini di Villa Arbusto, dove l’artista Paolo May ha realizzato e installato la targa commemorativa.

Fin qui, nulla di particolarmente scabroso, si direbbe: una semplice iniziativa culturale che rievoca un frammento di storia. Eppure, a distanza di una settimana, il clamore mediatico che ne è seguito ha preso pieghe paradossali – e qui parte la riflessione condita da un mix di ironia, sarcasmo e un pizzico di sbigottimento.
Il circo mediatico e la retorica della scandalizzazione
La vicenda ha colpito l’opinione pubblica con un piglio quasi grottesco. E, vivendo in un Paese che oscilla tra commedia e tragedia, non posso negare il divertimento iniziale nel leggere certe cronache. Tuttavia, rimane in bocca un retrogusto amaro che porta a chiedermi: com’è possibile che, al giorno d’oggi, si monti un polverone tale attorno al ricordo di un evento storico senza un minimo di contestualizzazione?
Non farò nomi di testate o emittenti: basti dire che la logica di fondo è la solita. Si prende un evento (meglio se succulento e controverso), lo si mescola con “pipponi” ideologici, si omette ogni benché minima contestualizzazione, si ignora la testimonianza dei relatori e, sostanzialmente, si ascolta solo chi “passava di lì” e che era pregiudizialmente ostile. Finita la frittata, la si serve su un piatto d’argento al pubblico. E così l’informazione made in Italy, da tempo in caduta libera, continua a generare più nubi che schiarite.
L’importanza di un contesto (che non interessa a nessuno)
Un primo, macroscopico errore è giudicare Lenin (o qualunque altra figura storica) usando le lenti del presente, senza alcuna contestualizzazione storica. Premessa che, a quanto mi risulta, il Professor Martone ha ribadito con chiarezza durante l’evento. Evidentemente, chi ha parlato o scritto per “partito preso” non poteva saperlo. O meglio: non voleva saperlo!
Ora, è vero: Lenin fu un personaggio tanto affascinante quanto complesso (nel bene e nel male). Tuttavia, non è obbligatorio essere comunisti (e io, per inciso, non lo sono) per ritenerlo storicamente rilevante. E dunque, un conto è affrontare la figura di Lenin attraverso una lucida analisi contestualizzata all’epoca in cui visse, un altro è scagliarsi contro dogmaticamente, ignorando che l’evento ischitano non aveva come scopo la beatificazione di un regime, bensì la legittima commemorazione di un fatto storico: Lenin, su quest’isola, c’è stato davvero, e quel soggiorno è documentato.
Al netto delle interpretazioni storiografiche su Lenin, mi sembra che l’iniziativa – per quanto promossa da un gruppo di sinistra (non è un mistero) – fosse improntata al rispetto e all’oggettività: infatti c’erano docenti universitari, interventi musicali, proiezioni, giovani e meno giovani interessati. Se poi qualche veterano (o “stagionato militante” della sinistra storica) ha approfittato dell’occasione per esibire, con un certo orgoglio, la sua tessera rossa, be’, ci sta (anche se dalla maggior parte dei media sembra che, tutto l’evento, si sia ridotto a questo unico fatto). Magari fa sorridere, magari sembra anacronistico, ma non è vietato dalla Costituzione. E soprattutto non comporta alcuna apologia di crimini o istigazione a chissà quale rivoluzione bolscevica (che, credo, nessuno abbia in animo di imitare).
Oltretutto, a ben guardare, la storia del pensiero è piena di figure complesse, spesso “contestate” o ritenute non allineate, e perfino figure chiaramente di destra, ma tuttavia importanti per comprendere intere epoche. Basti citare Giovanni Gentile, René Guénon, Oswald Spengler, Carl Schmitt le cui opere hanno suscitato – e continuano a suscitare – forti divisioni. Eppure, anche nel loro caso, la legittimità della ricerca storica e filosofica non imporrebbe celebrazioni, ma la necessità di esaminare il contesto, verificare le fonti, coglierne le intuizioni e, se del caso, discuterle criticamente. Se questo vale per autori considerati “controversi” e quasi tabù in certi ambienti, non si capisce perché non dovrebbe valere per Lenin, quando ci si limita a ricordare un piccolo tassello del suo passaggio sull’isola.
Salò e la revoca alla cittadinanza onoraria di Mussolini: altro giorno, stessa m***a
E veniamo a un parallelo interessante. Pochi giorni dopo, mercoledì 26 febbraio, il consiglio comunale di Salò (Brescia) ha approvato la revoca della cittadinanza onoraria a Benito Mussolini, concessa più di cent’anni fa. Solo tre i voti contrari (facile intuire da quale area politica provengano). Anche qui, un’iniziativa portata avanti da un sindaco giovane, che ha generato un notevole clamore, con elogi da un lato e critiche feroci dall’altro. Perché, signori, in Italia riesce sempre difficile affrontare la storia in modo lucido: c’è chi la vuole rinnegare in blocco e chi la vuole glorificare senza riserve, come se esistesse un solo colore possibile (che sia rosso o nero, poco importa).
Prima che qualcuno pensi che stia facendo propaganda “rossa”, analizziamo obiettivamente la situazione concentrandoci sulla questione della cittadinanza onoraria: che cosa significa averla, in Italia? In senso generale, essa è un riconoscimento concesso da un Comune (o Stato, o Provincia) a individui ritenuti particolarmente meritevoli, per i loro contributi a favore della collettività, delle scienze, delle arti, ecc. Nell’ordinamento italiano (art. 9, comma 2, Legge 5 febbraio 1992, n. 91), la cittadinanza onoraria nazionale non è prevista, mentre lo è quella “per meriti speciali” concessa agli stranieri che abbiano reso eminenti servizi all’Italia, oppure quando ricorra un eccezionale interesse dello Stato. A livello comunale, invece, non esiste una legge specifica: il riconoscimento si basa spesso su un regolamento interno e si decide con una semplice delibera di consiglio, con motivazioni politiche che cambiano col mutare delle maggioranze.
Ebbene, la Legge n. 645/1952 sanziona chiunque “promuova o organizzi, sotto qualsiasi forma, la costituzione di un’associazione, di un movimento o di un gruppo avente le finalità di riorganizzazione del disciolto partito fascista, e chiunque faccia propaganda finalizzata all’esaltazione di esponenti, princìpi, fatti o metodi del fascismo…”. Quindi, che un Comune revochi a Mussolini una cittadinanza onoraria ormai scandalosa e anacronistica pare non soltanto legittimo, ma francamente doveroso. E a questo punto, anzi, sorge spontaneo chiedersi: perché non l’hanno fatto prima?
Rispolverare la storia senza strumentalizzarla
Alla fine, ciò che emerge in entrambi i casi è che in Italia si fa un’enorme fatica ad approcciarsi alla storia in modo sereno, informato e libero da preconcetti. Da una parte, c’è chi posa una targa commemorativa e viene tacciato di idolatrare un despota. Dall’altra, c’è anche chi toglie una cittadinanza onoraria ma viene accusato di “revisionismo inutile” o “caccia alle streghe”.
È chiaro che molti media, complici di uno stile informativo piuttosto modesto, abbiano poca voglia di approfondire (o peggio ancora, come accaduto in questi due casi, di forzare e strumentalizzare volontariamente). Ma questo – in una società seria – dovrebbe spingerci a dotarci di un minimo di spirito critico, magari provando a smontare la solita macchina della retorica sensazionalistica. La storia, d’altronde, è una faccenda complessa, non un selfie da condividere su Facebook con due righe di didascalia. E finché non ce ne ricorderemo, continueremo a imbatterci in clamori mediatici che hanno più a che fare con il folklore da bar che con un sincero desiderio di conoscenza. Se non altro, ci resterà l’amara consolazione di poter sorridere (o piangere) di questi episodi di commedia all’italiana. Meglio di niente, no?
Se smettessimo di barricarci dietro slogan e indignazioni facili, scopriremmo che ricordare – per quanto scomodo – è uno strumento fondamentale per capire chi siamo e come siamo arrivati fin qui.
Morale della favola? Una targhetta in un giardino non trasformerà Ischia in nuovo fronte bolscevico, così come il decadere di una cittadinanza onoraria non riscriverà la storia del regime fascista. Forse, però, riflettere su questi due episodi ci aiuterebbe (se solo volessimo) a esercitare un po’ di sano spirito critico. Magari potrebbe insegnarci che, nel 2025, piuttosto che scandalizzarci per gli studi sul passato, dovremmo seriamente preoccuparci di come stiamo raccontando (e deformando) il presente.
Dopo tutto il clamore suscitato, ho avuto modo di confrontarmi personalmente con il prof. Antonio Martone che non ha fatto mistero delle sue preoccupazioni. Dalle sue parole, è venuta fuori un’analisi tanto lucida quanto cruda, che ben sintetizza il timore dello smarrimento (quasi totale) del senso critico di masse aizzate da media che hanno a cuore tutto, meno che l’informazione reale. Martone, infatti, si chiede quanto segue:
Se davvero siamo finiti in un’epoca in cui il consenso si costruisce con illusioni e distrazioni, se l’hegeliana ‘fatica del concetto’ è ormai soltanto un’occupazione senile della nostra umanità occidentale, la domanda non è più chi comanda, ma quanto siamo disposti a farci comandare. Il vero dramma non è il potere in sé, ma la rassegnazione di chi lo subisce senza nemmeno più riconoscerlo. La storia non perdona gli ingenui e i conformisti al ribasso, e chi oggi accetta di vivere nell’inganno domani scoprirà di averlo scambiato per libertà.

Da parte mia, in conclusione, non posso che rilevare come una simile passività trovi terreno fertile proprio in un sistema mediatico spesso asservito alle logiche di mercato, pronto a sfruttare ogni polemica e ogni indignazione estemporanea a beneficio di visualizzazioni, e dunque sponsorizzazioni, sempre più generose e ricche.
Forse, a ben vedere, la rivoluzione di cui ci sarebbe davvero bisogno non è di tipo bolscevico, né una nuova “marcia su Roma”: servirebbe piuttosto una rivoluzione culturale che restituisca dignità all’essere umano, invitandolo a riappropriarsi di quella libertà di pensiero che dovrebbe costituire il connotato più intimo e imprescindibile dell’umanità del singolo e della civiltà nel suo complesso. Senza questa rivoluzione, continueremo a confondere l’obiettività con il delirio, lasciando che la storia – come ci ricorda Martone – presenti il conto a chi non l’ha mai presa sul serio.