Se nelle ultime settimane una trasmissione come Report è stata attaccata, soprattutto a causa delle inchieste sul mondo del vino, non è un buon segno per l’intero settore: piuttosto costituirebbe il sintomo di un arroccamento di sistema basato sullo screditamento di un certo modo di fare giornalismo, per giusto o sbagliato che appaia, senza esprimere alcuna volontà di confutare ciò che è trapelato dal programma di Sigfrido Ranucci e addurvi dettagliate motivazioni.
Se nelle due puntate precedenti a quella del 22 dicembre scorso non è mancata una certa maniera di generalizzare e sparare nel mucchio, discorsi lacunosi sulla chimica, a evidenza che il conduttore non fosse avvezzo professionalmente alla materia enologica e vitivinicola, ed errori nel pronunciare i nomi di certi vini; nell’ultima si può dire di tutto, ad esempio dell’uso eccessivo del termine Supertuscan, ma non certo che Sigfrido Ranucci abbia generalizzato anche stavolta, mettendo la questione dell’identità geografica presunta dei vini sotto la lente d’ingrandimento.
Infatti, è stato messo il focus soltanto su alcune un’aree specifiche della Toscana e sono state citate solo determinate cantine, senza per questo mettere in discussione l’intero distretto di Bolgheri, la produzione di Chianti o la stessa regione: precisamente si è parlato di quelle che hanno trovato opportuno inserire vini di altre regioni attraverso un giro di intermediazioni, descritto in maniera piuttosto cristallina, ammesso tra l’altro dagli stessi interessati, le cui dinamiche restano comunque al vaglio degli inquirenti.
Così come per i singoli, la trasmissione di Sigfrido Ranucci, stavolta in maniera ancor più compiuta delle altre, si è fatta carico di ciò che ha affermato, non dovendo certo sentirsi responsabile di ciò che gli ascoltatori vogliano intendere. Non si può disinnescare la filiera del giornalismo di inchiesta solo perché ciò potrebbe insinuare implicitamente il dubbio che un intero comparto possa essere deviato a causa di certe pratiche o da una narrativa totalmente distorta rispetto a come effettivamente vengano prodotti i vini e con cosa.
Non è stato affatto messo in discussione tutto il vino italiano, semmai a creare allarmismo sono coloro che lo affermano, non ci sono stati spari sulla croce rossa da parte di Report e non si può accusare una trasmissione di offendere il buon nome di un asset strategico per il Made in Italy: sarebbe un atteggiamento interpretativo volutamente manipolatorio di narrare le cose e di rivoltare la frittata. La responsabilità dello smacco al mondo del vino semmai è di chi commette illeciti e di chi in maniera poco etica racconta balle ai consumatori.
L’etichettaggio di un vino, la sua scheda tecnica, ciò che si descrive di esso, a partire dall’origine delle uve e dalla composizione del blend, e l’apparato comunicativo nella sua interezza, costituiscono gli elementi irrinunciabili su cui dovrebbe instaurarsi la fiducia tra produttore e consumatore e soltanto chi tradisce tale fiducia getta di fatto un’ombra sulla reputazione del comparto vitivinicolo italiano e dovrebbe prendersene la responsabilità.
L’etichetta è un patto sacro, se la promessa non può essere mantenuta in determinate annate c’è sempre la possibilità di declassare il vino. Prima di essere pizzicati però!
Muovere certe critiche diventa perciò risibile a un certo punto, soprattutto quando poi si parla di sensazionalismo a costo di fare notizia da parte di chi la dà: il vero sensazionalismo consiste nel non fare voto di ammissione, nel non ammettere vi sia un problema, quindi nella disarmante assenza della volontà necessaria a trovare una soluzione e ad applicarla, annichilendo ogni forma di ragionamento sensato e massa critica, a tal punto da mettere una pezza peggiore del buco.
Siamo troppo abituati ad immaginare giornalismo e comunicazione come qualcosa di analogo, e per certi versi lo sarebbe anche, visto quanto siamo caduti in basso nelle classifiche della libertà di stampa. Fatto sta che il giornalismo fa anche un certo tipo di comunicazione, ma non necessariamente la comunicazione fa giornalismo. In Italia piace assai rimescolare le cose e confonderle: il giornalismo dovrebbe divulgare la verità e la comunicazione dovrebbe narrare, attraverso uffici stampa aziendali, professionisti ed agenzie esterne, ciò che è più opportuno per creare leve motivazionali a vantaggio del marketing per le aziende, in questo caso delle aziende del vino, muovendo economie, flussi enoturistici, nuovi clienti e vendite. Soldi.
Non c’è nulla di male, è un lavoro come un altro, legittimo, commissionato da chi deve vendere un bene commerciale, e giustamente pagato. Il giornalismo e la stampa libera invece devono poter essere disgiunti da forme di compenso o di interessi di qualsiasi sorta: ergo altro sport, altro campionato.
Chi attacca Report, e magari fa bene, legittimo anche questo, accusandolo di vendere deliberatamente acqua calda, fa male a farlo da dietro le quinte e fa male a farlo a scoppio ritardato: si potrebbe sospettare che, da esperto, chi non abbia parlato prima l’abbia fatto per convenienza e, facendolo dopo, si sia limitato semplicemente a latrare nell’insulso tentativo di nascondere la polvere sotto al tappeto, sollevando però un polverone ancor più grosso se possibile. Una quantomeno drammatica assenza di tempismo.
Ma siamo sicuri che la pratica del giornalismo investigativo e del susseguente giornalismo di inchiesta sia ben compresa e assodata da chi ne critica l’operato? E siamo sicuri essi debbano essere praticati da esperti in ogni singolo settore sotto esame? Forse che un giudice per le indagini preliminari debba essere laureato in medicina per poter procedere alle opportune verifiche in caso di mala sanità? Forse che agli inquirenti che hanno indagato sul metanolo, Velenitaly e Brunellopoli, fosse stato richiesto loro in precedenza una laurea in viticoltura ed enologia, un diploma di sommelier o altro?
Certo non si può pretendere che tutti conoscano i meccanismi di tali forme di giornalismo, talvolta capita per il proposito di non voler concepire quanto esse differiscano dalla comunicazione tout court, altre perché, in maniera puerile, l’italiano medio preferisce banalizzare e farne dietrologia storica, attribuendo l’inchiesta giornalistica a dritta piuttosto che a manca, pretendendo di risolvere tutto con concetti totalitaristi di inizio ‘900 decisamente superati, piuttosto che argomentare. È questo che poi diventa lesivo per il vino italiano, che per fortuna non ha bisogno né di avvocati da due soldi né di storyteller malamente prezzolati, visto che gode di ottima salute e che è fatto più da gente per bene che da millantatori, broker enologici e fantasisti del vino.
Cruciale per chi vuole avviare investigazioni, elaborare un dossier e fornire notizie mediante giornalismo d’inchiesta è il fatto che talvolta i soggetti dell’inchiesta non debbano essere a conoscenza del progetto di indagine, anche perché alcuni non avrebbero neanche la benché minima intenzione di divulgare alcunché, tenterebbero a insabbiarlo o quantomeno ad eludere domande. Non si tratta di trarre in inganno persone ignare di essere oggetto di indagini giornalistiche, ma di provvedere deontologicamente e con riserbo ad evitare ulteriori emorragie della verità che si vuole riportare alla luce, meccanismi tra l’altro insegnati all’università, attraverso corsi di formazione e perfezionamento specifici, invero pratiche riconosciute anche dall’Unesco e che coadiuvano alla libertà di espressione e allo sviluppo dei media.
Adesso non è che se gli esperti non abbiano voluto parlare prima debbano tacer per sempre, ci mancherebbe, siamo in democrazia, ma ci vorrebbe in certi casi più un pudico silenzio che la sfacciataggine di controbattere a posteriori di faccende, a loro dire, risapute. Se si sapeva e si è taciuto, per parlare poi, si è passati dall’omertà alla disonestà intellettuale o, quantomeno, all’ignoranza consapevole. Viviamo oltretutto in un’epoca in cui persino il giornalismo enogastronomico, fatte salve le dovute eccezioni, è diventato acritico e ha conseguito il gusto stucchevole della propaganda.
Insomma, chi mai azzarderebbe a definire colleghi Lugi Veronelli e Robert Parker per il sol fatto che abbiano il vino come comune denominatore? Report fa un mestiere e chi comunica il vino, tradendolo, deve spettacolarizzarlo. Diamine, nessuno chiede a chi fa un certo tipo di comunicazione sul vino di avere i principi etici di un giornalista, è chiaro che è più asservito al marketing del vino che all’informazione sul vino. È chiaro che gli specialisti della comunicazione, indubbiamente professionali, difendano fortemente il loro punto di vista: diversamente dovrebbero cancellare articoli, post e recensioni propositive proprio su quei vini messi allo scoperto da Report. E quante guide per errate informazioni sull’oggettivo contenuto di determinate bottiglie dovrebbero andare al macero?
È propaganda dettata dalla comunicazione persuasiva finalizzata al marketing e alla promozione economica o critica enologica di preciso? Possibile poi che ultimamente tutti i vini siano diventati buoni e premiabili? Scambi clientelari ne abbiamo tra enti, associazioni di categoria e partecipanti ai concorsi enologici?
Oh, questo si che è generalizzare e insinuare pure, altro che quei dilettanti di Report! Ma stiamo qui a chiedere semplicemente per un amico, no?
Il giornalismo enogastronomico comunque non dovrebbe fare comunicazione persuasiva, non dovrebbe fare propaganda, non dovrebbe fare marketing e quando parla di territorio esso non dovrebbe certo coincide con i tenimenti di una cantina, come in realtà spesso accade, sennò con tutto ‘sto amore per il territorio ci asfalteremmo per lo meno le strade che conducono alle aziende vitivinicole.
In definitiva, per comprendere le ipocrisie di oggi, basta vedere come andò a finire il caso Brunellopoli: pizzicati a infiascare anche percentuali di vino da vitigni migliorativi non ammessi, anziché vino da Prugnolo Gentile in purezza come mendacemente dichiarato, gli apostoli del vino, i puritani dei processi produttivi, preferirono modificare il disciplinare del Brunello di Montalcino e inserire ciò che prima non andava fatto né veniva rivelato al consumatore. Nessuno se la prese con nessuno, anche perché quando il fattaccio venne a galla, Report non era ancora condotto da Ranucci. Ma poi, alle soglie del terzo millennio, ancora che ci illudiamo che ci voglia un piccolo chimico per capire che basta aumentare la quantità di certi prodotti enologici, legalissimi e normalmente ammessi per la loro elevata azione antiossidante, per ottenere invece una correzione su certi parametri organolettici nel vino, per commettere un illecito?
Quel che Report dovrebbe capire è quanto segue: tutto cambia perché nulla cambi ed è così che vogliono gli italiani dai tempi di Tomasi di Lampedusa, se non da prima, nel Paese in cui le vittime del metanolo non sono state mai risarcite. Per chi fosse arrivato a leggere fino a qui, avendo compreso da un pezzo quanto il titolo sia oggettivamente fuorviante, una magra consolazione: avete provato la stessa cosa di chi apre una bottiglia di vino nella convinzione che il contenuto sia identico a ciò che promette l’etichetta e il marketing comunicativo, ma invece…